La povertà nel Mezzogiorno d’Italia: il caso di Lecce

di GUGLIELMO FORGES DAVANZATI (in Iuncturae.eu ,maggio 2017)
La povertà a Lecce, come del resto nel resto d’Italia e nel Mezzogiorno, è in continuo aumento e costituisce verosimilmente il problema principale che la prossima amministrazione comunale dovrà affrontare. Su fonte CARITAS, il problema riguarda circa 2000 famiglie, molte delle quali vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta, ovvero hanno difficile accesso ai beni e servizi essenziali (alimentazione, cure sanitarie). La recessione combinata con le misure di austerità hanno ampiamente contribuito a generare questi esiti ed è ben difficile che un singolo comune riesca a farvi fronte.
La principale (non unica) proposta in campo è l’introduzione del reddito di cittadinanza locale, che, se non pensato come misura puramente assistenzialistica e assunto che raggiunga una platea di cittadini sufficientemente ampia, potrebbe attivare un circolo virtuoso di contrasto alla povertà e, contestualmente, di ripresa della crescita locale. Ciò a ragione del fatto che il reddito di cittadinanza:
1) Migliora la qualità della ricerca del lavoro. Individui privi di redditi non da lavoro sono sempre più spesso costretti ad accettare la prima offerta di posto di lavoro, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è spesso irregolare o – nella migliore delle ipotesi – erogata in condizioni di sottoccupazione intellettuale. Più in generale, accresce il potere contrattuale dei lavoratori, dal momento che questi, con RDL vigente, dispongono di redditi non da lavoro.
2) Contribuisce a ridurre le fluttuazioni cicliche, dal momento che si configura come uno “stabilizzatore automatico”. In altri termini, nelle fasi recessive del ciclo, quando il tasso di disoccupazione aumenta, i consumi si riducono meno di quanto si ridurrebbero in assenza di una fonte di reddito automaticamente garantita (anche) ai disoccupati. In tal senso, si configura come una misura di sostegno della domanda.
3) Migliora la coesione sociale, dal momento che migliora il tenore di vita di individui precedentemente percettori di redditi bassissimi – anche se lavoratori (i c.d. working poors) – molto spesso al di sotto di una soglia socialmente considerata dignitosa.
4) Può agire come strumento di crescita non solo della domanda interna ma anche della produttività del lavoro, se finalizzato a contrastare le migrazioni giovanili e a promuovere l’inclusione nel mercato del lavoro di individui giovani con elevato potenziale produttivo. In tal senso, il reddito di cittadinanza è da considerarsi anche come un intervento dal lato dell’offerta, come stimolo per la riqualificazione della domanda di lavoro espressa dalle imprese.
Va tuttavia osservato che la sua principale criticità consiste nel fatto di essere appunto un trasferimento monetario e, per questa ragione, di non poter incidere sulla struttura dei consumi. In altri termini, sebbene venga erogato a famiglie indigenti nulla può escludere che il trasferimento ricevuto non venga destinato al consumo di beni che ben poco hanno a che fare con la sussistenza: un esempio di scuola si riferisce all’uso del trasferimento ricevuto per il consumo di beni che possono essere addirittura nocivi per chi li consuma (alcool, tabacco, droghe). La criticità qui in discussione potrebbe essere, nel contesto attuale, agevolmente estesa al gioco d’azzardo, considerando che il fatturato che esso genera è aumentato, in Italia, di oltre il 7% in un anno.
La questione, oltre che economica, è innanzitutto etica: attiene, cioè, al problema se sia legittimo o meno assegnare piena libertà ai singoli di scegliere senza vincoli normativi come allocare il proprio reddito. In tal senso, il reddito di cittadinanza può farsi rientrare in pieno in una ‘filosofia’ liberista: la proposta di un’imposta negativa sul reddito, formulata da Milton Friedman e Juliet Rhys-Williams, non sembra essere così distante dalla misura di cui si discute.
E’ possibile immaginare almeno due misure alternative di contrasto alla povertà, che non incorrono in questa criticità, ovvero:

  1. Il potenziamento dei servizi di welfare, ovvero l’erogazione di un trasferimento pubblico in beni e servizi. Si tratta sostanzialmente di un salario indiretto, che resta tale fino a quando il servizio è pubblico. Le privatizzazioni, infatti, dal momento che – nella gran parte dei casi – si traducono in un trasferimento dell’assetto proprietario dal pubblico al privato conservando tuttavia la struttura di monopoli naturali (dunque di forme di mercato con elevate barriere all’ingresso), generano di fatto aumenti di tariffe e spesso in peggioramento della qualità del servizio offerto. Per i beni pubblici, si pensi – nel caso del comune di Lecce – e a titolo esemplificativo al potenziamento dei servizi di trasporto pubblico o ai parchi.
  2. Se si considera che la soglia di povertà viene spesso raggiunta per il pagamento di imposte, può risultare efficace un innalzamento delle soglie di esenzione dell’addizionale IRPEF: si tratterebbe in prima istanza di una misura di contrasto alla povertà e, in secondo luogo, di una misura finalizzata a far mantenere elevata la domanda interna attraverso l’aumento dei consumi delle famiglie con più basso reddito. Con due possibili ulteriori vantaggi: in primo luogo, i percettori di redditi bassi di norma esprimono una propensione al consumo maggiore di quella espressa dai percettori di redditi alti; in secondo luogo, ma consumano essenzialmente beni di sussistenza, spesso prodotti in loco (e venduti in loco), così che i loro consumi – a differenza di quelli delle famiglie con redditi più alti – contribuiscono ad accrescere i mercati di sbocco interni e, per conseguenza, ad accrescere le quote di mercato delle imprese locali.