Sui processi di soggettivazione. Intervista a Federico Chicchi

a cura di SUDCOMUNE (in sudcomune, n.0/2015)

Tu parli di soggettività smarrite  e di  economie del desiderio, ma cosa è la soggettività e soprattutto perché parliamo di soggettivazione o meglio di processi di soggettivazione?

La domanda è piuttosto complessa, non è per niente facile costruire una riflessione sistematica sulla soggettività. La soggettività è un concetto teorico scivoloso ed é molto difficile inquadrarlo all’interno di un unico paradigma teorico. Questo è il motivo per cui nel mio testo “Soggettività smarrita” (Bruno Mondadori, 2012) preferisco usare il concetto di processi di soggettivazione, per cercare di rendere maggiormente inquadrabile la questione dal punto di vista teorico.. ma su questo torneremo poi….vorrei provare intanto a fare alcune riflessioni di base, di fondamento sulla riflessione del soggetto. Direi che in primo luogo dobbiamo partire dalla considerazione che non esiste alcun soggetto in natura, il soggetto non è qualcosa che si dà in natura, che troviamo già formato biologicamente.. è in realtà il frutto di una produzione: è una produzione sociale. In questo senso non è possibile fare nessuna archeologia del soggetto, non è possibile rintracciare un’essenza del soggetto. Il soggetto è in divenire, qualcosa che si determina storicamente. Questa è una prima riflessione, che credo fondamentale, da tenere sempre ben presente; é centrale perché non possiamo confondere il soggetto né con la sua struttura biologica, non si tratta parlare dell’individuo in quanto essere naturale, in quanto essere biologico, né con tutto ciò che riguarda il cosiddetto psichismo, cioè il soggetto non è sovrapponibile con la psiche, non c’è una corrispondenza tra quello che chiamiamo psiche e quello che invece chiamiamo soggetto. Il soggetto non è mai solo un dato individuale, esso è un’eccedenza, una perdita e un’eccedenza contemporaneamente. È una perdita perché ha a che fare con quel “pezzo” che si stacca dalla presa che l’ordine simbolico produce sulla psiche, sulla spinta vitale che la anima. Ogni individuo, quando nasce, in un certo qual modo viene avvolto dalla cultura e dalla lingua che gli preesiste. La psicoanalisi ci insegna in tal senso a guardare al modo in cui la lingua, che ha una origine sociale, interagisce con l’individuo. Quest’ultimo, diciamo, viene incastrato dentro quello che è l’ordine normativo, nel discorso sociale, che il mondo ad esso preesistente configura. Però questa presa non è mai totale, non è mai totalizzante, c’è qualcosa che si stacca, che si perde. Questo “pezzo” che si stacca forma il soggetto. in questo senso il soggetto è un taglio, è una piega che si produce nel rapporto tra lo psichico e il sociale, è quindi qualcosa che non si può mai definire né totalmente sul lato dell’individualità né totalmente sul lato della socialità, non è mai solo l’esito determinato della struttura che avvolge l’individualità né un’individualità libera di agire senza vincoli e attriti sociali. Peraltro il soggetto è la frizione che si produce (nel taglio) tra queste due dimensioni fondamentali. In tal senso però il soggetto è anche un’eccedenza, cioè qualcosa che si stacca dall’ordine simbolico e staccandosi da quest’ultimo produce un elemento che buca quest’ultimo, che fa buco dentro l’ordine simbolico. Il soggetto inizia dunque un percorso, cioè inizia un processo tensivo mai risolvibile una volta per tutte che è il frutto sia delle sue determinazioni individuali (biologiche) che di quelle che in un certo modo lo condizionano dall’esterno (ambiente). In questa tensione possiamo anche collocare lo spazio della azione etica del soggetto che deriva ed è collegato al modo in cui ci si posiziona rispetto a questi condizionamenti (i regimi di verità sociali). Potremmo quindi affermare che – come anche l’etimologia del termine soggetto ci indica – quest’ultimo è qualcosa che è soggetto a un campo di forza, che è soggetto a un potere che gli preesiste, ma che trova poi definizione come tale, cioè c’è effetto soggetto, c’è materialità del soggetto, quando il soggetto fa resistenza a questa cattura, a questa presa che comunque gli è necessaria perché, in un certo qual modo, lo istituisce, cioè lo fa entrare nel mondo, gli dà una fenomenologia, gli dà un tempo e uno spazio, ma al contempo non lo può “costringere” del tutto. Il soggetto è allora ciò che si produce dentro questa tensione tra cattura e resistenza. Naturalmente il soggetto è un concetto tutto interno alla modernità. Un concetto che si sviluppa dentro la produzione moderna, dentro la prassi e la pratica moderna, ed è oggi smarrito perché proprio questa configurazione, questa modalità di organizzazione sociale del mondo, oggi, è entrata in una crisi istituzionale irreversibile. Le sue istituzioni sono, infatti, attraversate da profonde crisi strutturali. Il soggetto così, perdendo i riferimenti fondamentali del moderno, si smarrisce. Chiudo questa mia prima risposta sottolineando il fatto che lo smarrimento di cui parlo, che dà il titolo al testo prima citato, è uno smarrimento che produce al contempo un esito di smarrimento nel senso più classico del termine, cioè di disagio sul soggetto, che si trova ad essere privo di riferimenti solidi, e quindi come dice Bauman, si liquefà, ma al contempo lo libera da una serie di forme di costrizioni che il moderno portava intrinsecamente con sé. Ad esempio nel libro una delle ipotesi fondamentali dello smarrimento del soggetto è interpretato secondo quello che io definisco l’evaporazione del lavoro, cioè il fatto che il lavoro salariato, così come lo abbiamo conosciuto nel capitalismo moderno e fordista, oggi tende a perdere egemonia, (anche se in certi punti del globo si cristallizza e continua a funzionare secondo una logica per lo più tradizionale) e tendenzialmente lascia spazio a un nuovo spirito del capitalismo, per citare Boltanski, che agisce attraverso l’esercizio di un potere governamentale che è sicuramente differente rispetto a quello precedente dove il potere era per lo più di tipo sovranitario e/o disciplinare.

Rispetto alla stagione del capitalismo industriale fordista, quella odierna viene definita come biopolitica, nel senso che alla produzione di merci si affianca la produzione di soggettività come determinante dell’azione e del discorso capitalistico. Ce ne puoi parlare? Cosa intendi con produzione di soggettività e per discorso capitalistico?

Si certamente… è quello che ho iniziato a dire nella risposta precedente, cioè che oggi siamo difronte a quello che ad esempio due importanti sociologi francesi come Boltanski e Chiappello, hanno chiamato il nuovo spirito del capitalismo detto anche il terzo spirito del capitalismo, cioè saremmo di fronte a una continuità qualitativa rispetto alle configurazioni normative e sociali del capitalismo weberiano della gabbia d’acciaio, quello della catena di montaggio, quello del disciplinamento ortopedico dei corpi dentro la macchina industriale. La questione tra l’altro in letteratura è molto discussa, ad esempio da parte di David Harvey, che indica, nei primi anni settanta, il momento in cui questo cambiamento, questa discontinuità, ha cominciato a prodursi da un punto di vista fenomenologico e sociale. Questo nuovo capitalismo che in un recente passato abbiamo chiamato postfordista è stato definito da un importante psicoanalista che si chiama Jacques Lacan attraverso il concetto di Discorso capitalista. Cosa caratterizza il Discorso capitalista? Intanto è bene precisare che questo concetto è stato introdotto da Lacan nel 1972 a Milano, durante una conferenza che è rimasta nella storia anche per questa ragione. In un certo qual modo Lacan in quella occasione ha dialogato a distanza, problematicamente ma anche fecondamente a mio avviso, con alcune suggestioni che derivavano dall’opera delueziana e guattariniana; il 1972 è infatti anche l’anno in cui esce l’anti-Edipo e l’anno in cui le teorizzazioni qui presenti incominciano a diffondersi nella cultura intellettuale europea. Lacan, in un certo qual modo, fino a quel punto accusato – ingiustamente – di posizioni, più o meno conservatrici; in realtà (questa è però una mia tesi) fa proprie alcune delle direzioni teoriche che il testo di Deleuze e Guattari mettono in campo, e attraverso il concetto di Discorso capitalista comincia a fornire alcune coordinate interpretative fondamentali a quello che capita al soggetto catturato in quella soluzione di discontinuità di cui parlavo prima. Quello che sostengo è che è necessario osservare il potere nelle sue forme contemporanee, osservare quella che è la torsione che il potere del capitalismo produce nei confronti del soggetto, effetti di potere che in quegli anni incominciano a mostrarsi. Allora il Discorso capitalista è un tentativo di leggere la forma e la forza della norma sociale, e quindi l’esercizio del potere dentro il nuovo spirito del capitalismo. Il concetto, in modo molto esemplificato si può spiegare inoltre lungo tre caratteristiche fondamentali: 1) Prima di tutto il discorso capitalista mette a valore la vita direttamente, senza necessariamente organizzarla in forza-lavoro, ed è quello che caratterizza quello che tu chiamavi potere biopolitico, cioè un potere che si esercita sulla vita direttamente e che non ha bisogno di una configurazione specifica di quest’ultima, non ha bisogno di una configurazione della vita dentro i confini sociali del lavoro e in particolar modo di quel lavoro che si scambia con il capitale per poter essere remunerato e quindi riconosciuto socialmente nella sua utilità. Quindi potremmo dire che questo potere si organizza in modo tale da non aver più necessariamente bisogno, per esercitare sfruttamento ed estrazione di valore, non ha più necessariamente bisogno di passare da quella mediazione fondamentale del moderno che è stato il lavoro e in particolar modo il contratto di compravendita della forza-lavoro. Occorre però fare un’ulteriore specifica: piuttosto che intendere questo come la fine del lavoro dobbiamo leggere la questione dentro quello che è un processo di lavorizzazione della vita; cioè non è tanto che si assume direttamente la vita dentro il capitale ma diciamo che si estende il lavoro a tutta la vita, modificando però radicalmente la stessa qualità del lavorare, così come era stata intesa nella società industriale. Tutta la vita diventa potenzialmente e immediatamente produttrice di valore addirittura anche quando questa non è iscritta dentro lo spazio negoziale che la compravendita del lavoro circoscrive per istituire lo spazio dello sfruttamento del lavoro nella sfera della produzione, come Marx ha efficacemente descritto. In altre parole saltano i confini (moderni) tra la sfera della circolazione e la sfera della produzione così come Marx aveva indicato e le modalità di esercitare lo sfruttamento si complicano e si articolano in modo nuovo. Su questo tema le riflessioni – avanzate già alla fine degli anni settanta – di Christian Marazzi sono fondamentali e imprescindibili per comprendere cosa accade al rapporto tra vita e valore nel capitalismo contemporaneo. In questo senso nel mio libro e anche in altri scritti più recenti parlo del farsi forza-valore della forza-lavoro, cioè la vita immediatamente messa a produzione entra nelle maglie del capitale, viene succhiata dal ragno del capitale, viene parassitata dal capitale non più necessariamente, non solo attraverso lo sfruttamento del lavoro, inteso nel senso che siamo abituati ad attribuirgli (perché il lavoro non è che scompaia) ma anche secondo nuove modalità di cattura e sfruttamento. In altre parole non dobbiamo interpretare questo passaggio come una scomparsa generale del lavoro, diciamo invece che a quel paradigma di estrazione di valore, cioè a quello marxianamente descritto attraverso il concetto di sussunzione, si accompagna un’altra modalità di estrazione del valore che è quella che non abbisogna più di essere immediatamente riconoscibile come lavoro. Non c’è più un potere che ortopedicamente disciplina la vita attraverso il lavoro e che la dispone in modo tale che il valore sia più docilmente estraibile da essa, una volta “costruita” come forza-lavoro. Quindi oggi c’è un’estrazione di valore dalla soggettività che può essere anche inconsapevole e incistata direttamente sulla vita e sulle sue qualità di cooperazione sociale.

2) La soggettività è lasciata libera di prodursi dentro un campo che però è finito, cioè la soggettività non è più costretta, disciplinata, imbrigliata da schemi rigidi, macchinici che la dispongono anatomicamente per una docile estrazione del valore attraverso il lavoro, ma è sollecitata come bene ci indicano i testi di Michel Foucault, a produrre innovazione e valore attraverso il suo farsi impresa. Il potere cioè è inteso come sollecitazione e come disposizione, ma anche come una possibilità, come una opportunità. In un certo qual modo il potere si esercita producendo il miraggio di una terra promessa che ha confini ben precisi, ma che al contempo non sono chiari al soggetto. Il soggetto si sente più libero di agire, viene a ridursi il vincolo della subordinazione, dell’eterodirezione così come si era dato dentro la società del lavoro, il soggetto sente di potersi mettere in gioco in forma autonoma, e in realtà non si accorge che invece è assiomaticamente impresso, iscritto dentro un campo di possibilità finite che il Capitale ha preventivamente costituito. Non si tratta più di imporre codici di comportamento morali che spiegano in maniera netta, chiara, manichea ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma è un potere che sollecita il soggetto ad agire in termini innovativi, creativi e in termini di autonomia. Questo naturalmente è il discorso capitalista, perché al capitalismo postfordista serve questo tipo di soggettività: non più una soggettività passiva ma una soggettività attiva (l’homo agens di Von Mises), capace di introdurre un effetto di innovazione continua nei processi produttivi.

3) L’altro elemento sui cui vale la pena soffermarsi è quello che ha a che fare con ciò che Claudio Napoleoni chiamava l’alienazione. Il terzo spirito del capitalismo assume come perno del suo funzionamento il tema dell’alienazione, cioè come la concepiva Napoleoni: l’inversione soggetto-oggetto. Per essere più chiari qui abbiamo il tema della produzione di soggettività come oggettualità. Il capitalista produce soggettività in guisa di merce, cioè la soggettività è prodotta immediatamente come merce, in altre parole la soggettività è immediatamente scambiabile. Non ha più bisogno di essere trasformata in forza-lavoro per essere comprata/venduta. Non è solo produttrice di merce ma è prodotta come merce. Non può essere che merce. La fabbrica neoliberale del capitalismo contemporaneo è una fabbrica di soggettività (si vedano in particolare su questo i lavori di Dardot e Laval), perché penetra nei meandri soggettivi del soggetto e lo rende un fantasma, nel senso che esso stesso produce, dentro il fantasma della libertà da cui è invaso, un’azione di illusoria produzione di autonomia. In realtà questa autonomia, come già dicevamo, è il frutto di quella spinta all’innovazione continua di cui il capitalismo postfordista necessita. Si produce quella che amo chiamare “fantasmagoria della merce”. Il soggetto fattosi merce è inoltre un soggetto che mentre agisce consuma se stesso, e quindi manifesta forme sintomatiche (come la depressione e il panico) che sono sempre più diffuse nella società contemporanea. Lacan, nella sua conferenza del ’72, affermò che il Discorso capitalista è forse il discorso più astuto che si sia mai messo in campo, è la forma di legame sociale, di potere, più subdola che sia mai esistita ma al contempo per funzionare non può far altro che consumare se stesso. Quindi per funzionare consuma soggettività ma consumando soggettività non fa altro che consumare se stesso e quindi non fa altro che scavarsi la fossa.

Quali sono oggi le principali retoriche del capitalismo? E cosa vuol dire che la formazione del soggetto è sempre bimodale?

Parlando di Discorso capitalista, cioè cercando di declinare e cartografare il capitalismo attraverso il concetto di discorso, è semanticamente contiguo e immediato riferirsi al concetto di retorica, cioè l’uso che si fa del discorso nei confronti del soggetto. Come dicevo anche prima, la prima retorica del capitalismo postweberiano è quella del soggetto “animato” dal fantasma della libertà. Cioè del soggetto che crede di essere conchiuso in sé, pieno, monadico, che non ha cioè bisogno dell’altro, della relazione con l’altro, che può “soggettivarsi” attraverso il pieno di oggetti evitando la fatica del rapporto sociale. É il soggetto che si fa oggetto. La retorica del capitale è quella di un soggetto che si illude di poter vivere nella solitudine narcisistica, che può fare a meno del legame sociale, che può produrre forme di regolazione che non tengono conto dell’altro, che in un certo senso produce indifferenza verso l’altro. Qui aggiungo la questione della tossicomania come forma di disagio tipica del capitalismo neoliberale. Intendo cioè l’illusione di poter fare il pieno di godimento attraverso la sostanza farmacologica, attraverso l’oggetto-merce, attraverso il gadget. La merce diviene qualcosa che satura il buco che il soggetto porta intrinsecamente con sé. Noi ricordiamo tutti, credo, la frase che Margaret Thatcher quando con una battuta, volendo sintetizzare i suoi principi etici ed economici, disse negli anni 80, che la società non esisteva e che esistono solo gli individui, (here is no such thing as society ). Questa è esattamente la retorica dentro la quale la soggettività, sollecitata alla creatività e alla innovazione continua e al consumo maniacale porta con se, è esattamente quella l’impronta, è quello il tratto unario che il soggetto ha inscritto nella sua fronte, l’idea che possa essere da solo immediatamente pieno, capace di realizzare se stesso senza l’altro. È esattamente la questione che ponevo all’inizio del nostro ragionamento, cioè il fatto che tu richiamavi in questo concetto di bimodalità, cioè il soggetto è invece (ed è questo che lo rende rivoluzionario) intrinsecamente inscritto nel sociale che abita, non può fare a meno del sociale. Quindi è un bluf, quando ci dicono che la società non esiste che esiste solo l’individuo, si tenta di gettare sabbia negli occhi per impedirci di vedere quello che invece Marx aveva inteso benissimo: l’individuo per definizione è sempre un individuo sociale e costruisce la sua autonomia (ovvero si inscrive all’interno di un processo istituente, cioè di produzione autonoma di istituzioni) solamente nel momento in cui assume la sua densità sociale, cioè solo nel momento in cui produce legami con l’altro e non quando invece li recide. La bimodalità è l’elemento fondamentale del soggetto è ciò che gli permette di riconoscere l’altro e di non trasformarlo in un mero oggetto di godimento autoriferito.

Tu parli di soggettività smarrite e schizofreniche, ci fai degli esempi?

Risposta 4. Certo! Il discorso che stavo facendo ci porta esattamente qua, cioè su che cosa è il processo schizo. Il processo schizo è, rifacendoci ancora una volta a Deleuze, non è altro che la distruzione di ogni legame. La distruzione di ogni legame, ovvero di tutte le forme di organizzazione sociale che preesistevano al capitalismo. Il capitalismo funziona distruggendo i legami comunitari, polverizza la comunità. Questo però è, come Marx aveva ben inteso, un processo di liberazione dell’individuo, liberazione rispetto a costrizioni che trovavano nei codici comunitari la loro cogenza e la loro modalità di esercizio sociale. Il capitalismo per funzionare deve schizofrenizzare tutto, ovvero rompere i legami, ed è anche un po’ quello che dicevamo prima, cioè che il capitalismo si iscrive nella retorica della follia dell’essere un Io. Lacan diceva che la vera follia è quella di credersi un Io, quella di credersi un qualcosa di chiuso, di finito, di autonomo. Invece l’Io diventa soggetto solo nel momento in cui assume la presenza dell’altro (la relazione con l’altro) come suo limite costitutivo. Il capitalismo contemporaneo, in un certo senso, nella sua retorica attuale spinge l’individuo a rappresentarsi come un Io, cioè come un soggetto che non ha bisogno dell’altro. Naturalmente lo smarrimento deriva dal potare al compimento, dal radicalizzarsi nella modernità di questo principio. Cioè sostanzialmente vengono meno i “campanili” della società moderna, le costituzioni diventano formali e non hanno più effetti materiali, i parlamenti diventano dei gusci sempre più vuoti, De Martino parlava di crisi della presenza, di crollo del firmamento, ed è ciò mi pare quello che sta succedendo. Questo smarrimento è però uno smarrimento che è anche gravido di potenzialità, pieno di opportunità. Quando uno vive la precarietà del lavoro ovviamente poi rischia di vivere il disagio della povertà e della provvisorietà e fa fatica ovviamente a cogliere il senso di queste opportunità. Quando dico che lo smarrimento è anche un’opportunità dico che ci sono legami da ricostruire perché le forme di dominio del capitalismo che abbiamo conosciuto si sono esaurite, quindi da un lato c’è un capitalismo in agonia che cerca di iscriverci dentro nuovi subdoli dispositivi e dall’altro lato però c’è una soggettività che spinge per generare delle linee di fuga, per aprire dei varchi. Quindi tutta l’importanza del soggetto, come forza della politica emerge nell’ambivalenza che ci troviamo di fronte: un soggetto che soffre della crisi della modernità e dei suoi istituti, (istituti che le lotte della classe operaia hanno permesso di costituire – pensiamo al Welfare e alla sua crisi), soffriamo moltissimo della perdita dei diritti e della progressiva riduzione della proprietà sociale (come la chiamerebbe Castel), c’è una deriva privatistica della sfera pubblica e lo Stato ormai accompagna e non ostacola questo processo, ormai lo Stato è totalmente interno a questo processo di privatizzazione della vita e delle risorse, pensiamo al libro di Piketty (Il capitale nel XXI secolo) che mostra come sia in atto un processo di sperequazione della ricchezza a dir poco devastante. Allora è chiaro che di per sé la situazione attuale non può che apparire catastrofica.. ma dobbiamo riuscire anche a cogliere quelli che sono gli elementi di possibile fuga dal capitalismo che in questa fase si producono contraddittoriamente. Quindi quando parlo di smarrimento intendo parlare di una ambivalenza che da un lato vede i soggetti soffrire della crisi attuale e della conseguente crisi delle forme di protezione sociale del moderno e che dall’altro apre però un’opportunità per un superamento del capitalismo.

Nell’inchiesta politica sui call center,in modo netto rispetto ad esempio alle lotte territoriali e ambientali qui in Calabria, abbiamo visto da vicino il vincolo e l’empasse dei processi di soggettivizzazione tra gli operati out baund e nonostante le condizioni di lavoro di tipo medievali e di reddito misere, quali sono secondo te le maggiori resistenze che i cosiddetti processi di contro soggettivizzazione incontrano nei soggetti?

Il problema di fondo, che è squisitamente politico, ma anche etico, sta nel fatto che non riusciamo a sostenere materialisticamente le controcondotte, quelle che prima definivo come linee di fuga. Linee di fuga che si producono attraverso le resistenze che i soggetti mettono in campo dentro la presa del potere capitalistico. Il motivo è fondamentalmente che la merce è davvero un potente attrattore di soggettività, perché la merce dà l’illusione dell’appagamento del bisogno, e quindi crea un potente elemento centripeto, cioè il soggetto è attirato dall’idea di disporsi dentro la filigrana della merce, dentro la qualità della mercificazione, perché quest’ultima gli fornisce un godimento autistico ma immediato. Le controcondotte tendono, faticano a uscire da quel campo gravitazionale perché se nel loro afflato iniziale riescono a strapparsi da quel elemento di attrazione che la merce comporta, poi nel loro transito tendono a venire meno i supporti ai bisogni alle domande e ai desideri che a partire da quella fuga si erano prodotti e definiti. Io credo che il problema sia proprio quello di ricostituire delle forme di assonanza tra quelle diverse esperienze politiche e soggettive che hanno mostrato di essere capaci di contribuire alla produzione di nuove istituzionalità sociali, tessuti di solidarietà o di supporto capaci di sostenere le linee di fuga. Le linee di fuga, lo dicono molto bene Deleuze e Guattari tendono a curvarsi, non sono mai immediatamente lineari, noi dobbiamo fare in modo che queste linee di fuga non ritornino a come erano in origine, cioè che l’uscita dal mondo della mercificazione non produca una linea che poi sia costretta a tornare sulla mercificazione e sulla cosiddetta servitù volontaria. Pensiamo ad esempio al cosiddetto lavoro gratuito. Il quotidiano il Manifesto recentemente lo ha molto opportunamente riferito all’economia della terra promessa. Dentro il capitalismo si prefigura, attraverso la merce, l’orizzonte di una terra promessa che però non arriva mai, ed è esattamente lo stesso meccanismo di coazione a ripetere che induce il soggetto ad una vera e propria maniacalità al consumo. Il soggetto tossicomane è in questo senso un po’ il paradigma del soggetto smarrito nella contemporaneità. é un soggetto che si riempie di oggetti e maniacalmente non può più farne a meno, che sostiene quel processo pieno di oggetti. Riempiendosi di oggetti si fa oggetto e si fa indifferente rispetto alla vita. Noi dobbiamo costituire, attraverso una profanazione del fantasma della merce, un percorso di fuga. Per sostenere la profanazione dobbiamo far sì che i soggetti costruiscano dei legami e dei dispositivi capaci di supportare materialisticamente le linee di fuga, supportarli fino a quando la distanza che li separa dal centro di gravità della merce diventi sufficiente a liberarli e a metterli in condizione di produrre nuove istanze e nuove istituzioni solidali con i progetti di vita. Io credo che si giochi qui il nostro futuro politico, riuscire a costruire delle assonanze tra le singolarità, assonanze che portino quelle incrinature, che attraversano il capitalismo contemporaneo, ad approfondirsi e sulla base di quelle incrinature si produca la gioia di creare nuove istituzioni che poi sono quelle che Toni Negri chiama le istituzioni del comune, che non sono altro che il modo per uscire dalla macchina del mercato, per romperne la circolarità insignificante, per rimettere i piedi sulla materialità del vero.