Corruzione del comune e lavoro cognitivo nel Mezzogiorno

di FRANCESCO MARIA PEZZULLI (in sudcomune, n.0/2015)

Il comune è «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e cosi via» (1). E’ innegabile che oggi, senza tali dimensioni, la produzione non potrebbe darsi, forse non potrebbe neanche essere immaginata. Il comune si trova infatti nei saperi e nelle competenze dei singoli, nei nostri computer, cellulari e tablet, nelle capacità espressive e relazionali che abbiamo acquisito nel corso della vita, nelle reti di comunicazione e scambio nelle quali siamo coinvolti e che contribuiamo a estendere. Sono comune, dunque, non solo i beni comuni come l’aria, l’acqua, l’ambiente naturale e i frutti della terra, ma anche e soprattutto le radici del mondo della ricchezza materiale, gli elementi essenziali che consentono la sua produzione e riproduzione continua.

Gli economisti e i sociologi del capitale, spiazzati dagli elementi del comune, non riescono a comprenderli se non parzialmente, le loro ideologie infatti considerano solamente quelle dimensioni del comune che riescono ad essere valorizzate capitalisticamente: le qualità immateriali, cognitive e affettive della forza lavoro vengono allora definite come “capitale umano”, cosi come le qualità delle relazioni sociali in un determinato contesto (insieme alle infrastrutture territoriali dello stesso) vengono chiamate “capitale sociale”, parola magica tramite la quale spiegare i processi di sviluppo economico a partire dalle azioni strumentali degli individui. Il capitale sociale, in quanto comune, non è proprietà privata, ma si materializza agli occhi dei suoi apologeti solo quando riesce ad essere usato privatamente (2). Il capitale sociale è il comune che riesce ad essere valorizzato dal capitale. Solo quest’ultimo viene considerato dal main stream, solo le dimensioni del comune che riescono ad essere piegate al mercato trovano un posto nei loro modelli matematici dello sfruttamento. Fuori dal mercato non c’è nulla, sembrano dirci, e i beni e le forze produttive non appropriati o non appropriabili semplicemente non esistono. Di contro, notiamo che il comune eccede sistematicamente i vincoli del controllo capitalistico, perché il lavoro cognitivo, cosi come quello affettivo e relazionale, che si fondano sul comune ed allo stesso tempo lo producono, tendono sempre più ad estendere la cooperazione sociale in maniera autonoma.

Con la globalizzazione siamo entrati in quella fase prevista da Marx nei suoi Grundrisse quando si rende conto che le trasformazioni capitalistiche conducono ad una situazione in cui la ricchezza non è più prodotta dal tempo di lavoro immediato dell’uomo, ma dalle conoscenze storicamente prodotte, dalla scienza, dalla combinazione sociale, dal sapere generale che è divenuto la forza produttiva principale del lavoro umano. Come egli stesso scrisse: «le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect» (3). Il general intellect, l’intelletto sociale, è il comune, è la “condizione” della produzione stessa. Non possiamo solamente gioire del fatto che la globalizzazione capitalistica fonda la produzione sul comune, che necessita di quest’ultimo per compiere efficacemente il suo processo produttivo e di valorizzazione economica; non possiamo farlo perché l’uso capitalistico del comune, la sua privatizzazione e gerarchizzazione, genera inevitabilmente la sua corruzione. Se da un lato, infatti, il comune accresce le nostre vite, le nostre potenzialità espressive, comunicative e produttive, in una parola: il nostro essere sociale; da un altro lato, quando viene captato, organizzato e agito capitalisticamente assume una forma negativa, nociva, che pone gravi ostacoli alla produttività sociale ed alle singolarità che in essa agiscono.   

Il testo che segue descrive la corruzione del comune nel Mezzogiorno, dall’angolazione di due figure chiave, agli antipodi del lavoro cognitivo odierno: gli informatici e gli operatori di call center (outbound). Molto diverse tra loro, entrambi comunque hanno quotidianamente a che fare con il comune. Gli operatori di call center attraverso le qualità sociali e comunicative che mettono in gioco durante il loro lavoro; gli informatici, quando usano codici, linguaggi, tecnologie, metodologie e software liberi, ossia durante la gran parte della giornata. Sia gli operatori di call center che gli informatici sono testimoni diretti di come avviene la corruzione del comune nel Mezzogiorno; di come, in altri termini, le qualità e potenzialità sociali e relazionali dei singoli siano costrette nell’organizzazione capitalistica del lavoro o nelle maglie strette del particolarismo sociale e delle clientele politico economiche.

I materiali di base del lavoro provengono da “incontri” d’inchiesta e ricerca sul campo. Si tratta di lavori collettivi. Con gli operatori di call center, dal 2011 ad oggi, nell’ambito del “gruppo d’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria”. In questo caso, le modalità della conricerca hanno fortemente favorito il dialogo e lo scambio tra i partecipanti che, nel procedere degli incontri, hanno condiviso conoscenze e saperi sulle condizioni di vita e lavoro, sull’organizzazione dei call center, sul processo produttivo e sulle modalità di valorizzazione/sfruttamento vigenti nelle “fabbriche della parola”. L’obiettivo principale degli incontri è stato quello di favorire i processi di soggettivazione tra gli operatori, perché restiamo convinti che per sovvertire la condizione di precarietà bisogna primariamente rendersi conto della propria alienazione (4).

Con gli informatici, gli incontri sono proseguiti dal 2000 ad oggi ad intervalli più o meno regolari. In questo secondo caso si è trattato di incontri vis a vis, o in piccoli gruppi, per ricostruire le storie di vita e le esperienze singolari dei soggetti. Il criterio seguito è ravvisabile nel significato stesso di intervista: “vedere insieme”, svolgere un ruolo attivo nell’interazione, senza nulla cedere all’intransigenza scientista dell’assenza o neutralità (5).

In generale, i risultati emersi nei lavori d’inchiesta e ricerca, ai quali facciamo riferimento nelle pagine seguenti, possono essere sintetizzati in questi termini: la corruzione del comune tra gli operatori di call center e gli informatici meridionali passa attraverso l’industrializzazione del lavoro cognitivo, che frammenta e gerarchizza le attività e le prestazioni, e la “normalizzazione” delle singolarità ai valori ed alle pratiche locali di potere. Detto altrimenti, la corruzione del comune degli operatori e degli informatici è la modalità attraverso la quale le figure del lavoro cognitivo vengono sussunte nel sistema socioeconomico e culturale meridionale. E’ il modo in cui la crescita soggettiva e relazionale che questi esprimono, la cooperazione sociale di cui sono portatori e veicolo, viene bloccata e resa funzionale ai processi di valorizzazione economica e riproduzione sociale.   

La corruzione del comune degli operatori di call center

La corruzione del comune nei call center avviene per mezzo del dogma della  “produttività”, al quale si aderisce organizzando il lavoro cognitivo con la metrica del lavoro operaio di fabbrica. Di un dogma si tratta, perché è impossibile misurare servizi relazionali, mentali, come se fossero prodotti fisici. Eppure, l’industrializzazione del lavoro cognitivo è una realtà del capitalismo globale, un modo tradizionale di sfruttare le qualità della nuova forza lavoro formatasi nel processo di globalizzazione del capitale e di informatizzazione della produzione.

Tre economisti della Columbia University danno una spiegazione tecnologica di questo processo particolarmente significativa:

«le ICT, dopo aver favorito la razionalizzazione e gli incrementi di produttività nel lavoro impiegatizio e nelle catene logistico distributive, starebbero “risalendo” le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non industrializzabili, in virtù dell’insostituibilità e della limitata riproducibilità tecnica delle conoscenze incorporate da tecnici superiori e professionisti» (6).

Quest’aggressione, da un’angolazione più specifica, è stata quantificata da altri economisti, questa volta di Oxford: più di settecento occupazioni, nel breve periodo, potrebbero divenire superflue ed essere sostituite da computer e robot, dalle cosiddette macchine intelligenti. Si tratta di quei lavori cognitivi che hanno un alto grado di ripetitività e per i quali, pertanto, è in atto quella che gli specialisti chiamano “inversione della domanda di competenze cognitive” (7). Gli operatori di call center sono i primi della blak list degli economisti di Oxford, la smart action di Los Angeles ha infatti già sviluppato il software che potrebbe, almeno in parte, sostituirli. Si tratta di un applicativo che “impara” le preferenze del cliente incrociando una gran massa di dati e informazioni, direttamente o indirettamente correlate al singolo o al suo target di riferimento. La combinazione e sintesi di tali dati “disegna” una figura specifica di consumatore, in base alla quale il software è in grado di inferire sui suoi comportamenti di scelta in determinate circostanze. Questo nell’immediato futuro, mentre ancora oggi il dogma della produttività non è imposto ad un robot ma predicato ad un lavoratore cognitivo che, da quando entra nel call center, viene “loggato” al software aziendale che gli impartisce, dal videoterminale, gli ordini sul comportamento verbale e non verbale da mantenere nella gestione della telefonata. I toni, i sorrisi, le modalità interlocutorie sono imposte all’operatore come se fossero a lui estranee e impersonali. Agli script, questa è la regola, bisogna attenersi pedissequamente, senza margini di manovra. Come un tempo gli ingranaggi della catena di Chaplin, adesso il software è «la scienza che rimpiazza le vecchie conoscenze approssimative degli operai». Nell’applicativo è infatti implementato il primo dei «doveri della direzione»:

«raccogliere decisamente tutta la massa di conoscenze che nel passato erano patrimonio dei lavoratori e poi le registrano, le radunano e, in certi casi, le riducono a leggi, regole e perfino formule matematiche» (8).

Come gli operai in officina durante la giornata lavorativa, «la vita di un operatore di call center è segnata dal controllo costante dei tempi» (9) . E se le direttive del software non vengono per qualche motivo eseguite, è pronto il team leader (spesso un ex operatore), tragica figura post moderna del cronometrista, a battere i tempi.

“Il tempo è tutto” in un call center, ma le prestazioni degli operatori non assomigliano lontanamente agli atti generici che compieva l’operaio massa; non possono essere svolte indifferentemente da chiunque, ma chiamano in causa le qualità sociali dei soggetti che operano, qualità che derivano dalle loro esperienze di vita, educazione e socializzazione. Quanto siano fondamentali tali qualità comuni è ravvisabile nella definizione di produttività data da Massimo, e condivisa dai suoi colleghi operatori, durante un incontro d’inchiesta:

«La capacità produttiva di ogni singolo operatore di call center consiste in una serie di caratteristiche intrinseche provenienti comunque dalla propria forma mentis culturale, dal grado di istruzione e dalla capacità di saper ascoltare e saper cogliere nelle parole dell’interlocutore il momento opportuno per proporre la vendita del prodotto che si vuole piazzare».

Un bravo operatore è colui che riesce a stabilire una sorta di empatia telefonica e per fare ciò non c’entrano niente la forza o la resistenza fisica, mentre sono fondamentali le capacità linguistiche, comunicative e relazionali. Si tratta di competenze e conoscenze acquisite in ambito familiare, sociale e lavorativo: saperi, sentimenti, versatilità, reattività, tutte dimensioni che richiamano direttamente l’insieme delle facoltà comuni degli uomini. Tali facoltà, in rapporto col software e l’organizzazione complessiva di un call center, diventano direttamente produttive,  riescono ad essere valorizzate capitalisticamente. Vengono corrotte.

L’organizzazione scientifica del lavoro in un call center è definita al fine di catturare e canalizzare le qualità comuni e restituirle agli operatori come estranee e impersonali: è una fabbrica tayloristica delle parole, delle emozioni e dei sorrisi, nella quale la funzione organizzativa dell’imprenditore permane, cambiata, a volte irriconoscibile, me ben congegnata per attanagliare corpo e cervello insieme, per corrompere le qualità comuni degli operatori messe a lavoro.

Si tratta di un’organizzazione alienante, che produce malessere psico fisico tra gli operatori. Nei call center ci si “ammala” di lavoro perché si convive con pressioni di diversa natura, che la tecnologia invece di ridurre tende ad aumentare. Queste le parole di un medico genovese, tratte da una interessante ricerca sulle condizioni di lavoro nei call center del 2007:

«Le voci gentili di uomini e donne a cui esponiamo, spesso invano, i nostri problemi tecnici o a cui chiediamo informazioni o che cercano di venderci un prodotto di cui non abbiamo bisogna vengono da un mondo del lavoro moderno e tecnologico dove le persone continuano ad ammalarsi di lavoro. Per evitare o ridurre questi danni probabilmente sarebbe sufficiente far si che sia il lavoratore a governare e utilizzare la tecnologia invece del contrario» (10)

Sarebbe bello, ma “bello è impossibile” nei call center, perché il moderno e tecnologico mondo del lavoro call center, di cui parla Michele Piccardo, è organizzato per valorizzare le qualità sociali degli operatori, come se queste gli fossero esterne, in base al tempo di lavoro. L’alienazione, in questo modello, non solo è indotta, ma esaltata in qualunque relazione: nei corsi di formazione all’ingresso, nella relazione con il team leader, nelle riunioni con la direzione, quando si è loggati al software. Ognuno di questi rituali ha l’obiettivo di promuovere e legittimare l’ideologia aziendale che, come abbiamo descritto altrove, tende a produrre soggettività alienate (11). L’alienazione nei call center non è soltanto il risultato del processo di sfruttamento degli operatori, ma è anche il combustibile che favorisce la cattura e valorizzazione delle loro qualità. L’alienazione è la sostanza che fluidifica, per quanto possibile, la riproduzione dell’intero processo lavorativo. Dal punto di vista degli operatori è una cappa che offusca e riempie, uno stato d’animo negativo che li accompagna anche quando non sono loggati, per tutto il giorno!

La corruzione del comune degli informatici

Salvatore è un informatico lucano che, dopo aver lavorato in due grandi imprese con sede a Milano, si è aperto la partita IVA e lavora in modo autonomo. Quando in una trasmissione radiofonica gli viene chiesto della sua professione, parla a suo modo delle cause della corruzione del comune degli informatici meridionali: «il nostro lavoro comincia già quando cominciamo a discutere le idee, ma ci troviamo spesso a fare gli operai» (12). La corruzione del comune degli informatici meridionali avviene attraverso la svalutazione dei saperi e delle competenze di cui sono portatori. Essere specialisti ICT, settore chiave dello sviluppo finanziario e cognitivo del capitalismo contemporaneo, oggi nel Mezzogiorno e in Italia vuol dire subire un “blocco” della propria crescita professionale. Gli informatici meridionali inizialmente riescono a forzare questo blocco trasferendosi altrove, hanno imparato cioè «a fuggire i rapporti più distruttivi e conflittuali e a decomporre le formazioni sociali più perniciose» (13). Ma l’approdo, tra Roma e Milano, se generalmente migliora le condizioni salariali, in realtà apre le porte ad una condizione di sottoutilizzo e sottovalutazione dei saperi e delle competenze specialistiche dei soggetti. Le imprese dove lavorano sono infatti prevalentemente fornitrici di prodotti industriali per l’informatica, non  si occupano propriamente di innovazione ma, come per gli operatori call center, siamo nuovamente di fronte a processi d’industrializzazione del lavoro cognitivo. Anche in questo caso si ha a che fare con una “macchina” informatica, ma il contenuto del lavoro ricorda da vicino la parcellizzazione, monotonia e ripetitività tipiche del taylorismo:

«Di conseguenza si tenderà a scomporre, ad esempio, un programma di 25.000 righe in una decina di subprogramma di 2.500 righe ciascuno; ciascun subprogramma in una decina di moduli di 250 righe ciascuno; e ciascun modulo in una decina di segmenti di 25 righe ciascuno (…) più i segmenti sono ridotti e facilmente comprensibili, maggiore è la possibilità di impiegare personale scarsamente qualificato, e maggiore altresì la possibilità di controllarne le prestazioni» (14)

La corruzione del comune avviene quando il sistemista, il programmatore, il tecnico o le altre figure ICT vengono impiegate alla stregua degli operai massa. Il loro potenziale di cooperazione e creatività, in questo modo, viene ristretto nella meccanica delle procedure industriali. Nei fatti, le enormi energie presenti a livello locale in termini di ricerca e sviluppo vengono sottostimate e per lo più distrutte. Quanto mai chiare in proposito le parole di un informatico calabrese “traghettato” in tre grandi imprese con sede a Roma:   

«Tra tutti i miei colleghi laureati in ingegneria informatica è ormai abbastanza diffusa l’opinione che, nella stragrande maggioranza dei casi il lavoro che ci viene proposto non è cosi qualificato da richiedere una laurea completa e complessa come quella rilasciata dalle università italiane. Per molti mesi abbiam oscritto programmi che implementavanao le funzionalità necessarie basandoci du diagrammi funzionali definiti da colleghi svedesi, e che non ci era richiesto di capire più di tanto. Scrivevamo codice e basta, le nostre attività erano simili a quelle di una catena di montaggio. Nel 2000 alla fine ho messo da parte il desiderio di fare ricerca, ho cambiato tipo di lavoro e azienda. Non progetto più nulla, cerco di vendere ciò che altri colleghi più fortunati di me progettano e realizzano in Germania e/o in Austria» (15)

Gli informatici italiani sono meno fortunati, perché spesso lavorano come se fossero alla catena di montaggio e per tale attività non gli è richiesto di capire più di tanto.

Dobbiamo comunque distinguere due momenti precisi del processo di corruzione del comune degli informatici meridionali. La corruzione indotta dall’impresa, che avviene nel Mezzogiorno ma prevalentemente al centro nord, dalla corruzione indotta dalle reti locali di potere. La maggior parte degli informatici intervistati si sono formati a cavallo tra gli anni ’80 e il decennio duemila e sono stati testimoni diretti delle iniquità del modello di sviluppo clientelare, con le fratture sociali tipiche delle società progredite sull’economica pubblica. Quando è arrivato il momento di seguire le pratiche paterne, ossia di mettere in gioco un’amicizia influente per trovare lavoro, meglio se politica, dopo diversi anni di studio, molte volte vissuti fuori dai contesti di origine, hanno preferito «non inserirsi nel circuito vizioso del favore da restituire, di dover ringraziare per ottenere un diritto». Molti di loro hanno scelto di:

«non voler scendere a compromessi, di non restare perchè restare avrebbe significato pagare un prezzo troppo alto. In generale credo che chi come me è partito dal sud Italia la pensa allo stesso modo della città dalla quale è partito. Nessuno vuole tornare per non sottostare ai compromessi dove conta chi è più forte e più furbo, mai chi è più serio e intelligente» (16)

Da questo punto di vista gli informatici meridionali non hanno generato particolari problemi alle reti locali di potere, non hanno lottato per integrarsi nelle città d’origine, non sono stati espulsi dai contesti di provenienza, ma sono partiti senza particolari traumi, felici di intraprendere un nuovo percorso di vita. Quando hanno preso atto che restare significava stabilire relazioni durature con “amici” politici o imprenditori, cioè dar luogo a tradizionali strategie familiari, parentali e clientelari, non hanno avuto dubbi circa la cosa migliore da fare: «fuggire, andarsene». Perché restare avrebbe significato doversi “localizzare”, adattarsi allo stato di cose imposto dalle reti locali di potere, accettare le regole del gioco che non hanno quasi mai a che fare con lo specifico lavorativo ma coinvolgono l’insieme delle norme – formali e informali – vigenti nei contesti meridionali (17).

In precedenti resoconti di ricerca avevamo rilevato che quello degli informatici è un “viaggio rimasto a metà”, nel senso che la scelta del trasferimento si è resa necessaria al fine di non «stabilire i compromessi che ti vengono proposti per lavorare e per allontanarsi da determinati modi di fare e di pensare». Ma se il contesto di destinazione risolve questo problema, di fatto li conduce in un’impresa che non gli consente di crescere, né di usare il patrimonio di conoscenze di cui sono in possesso; occupati in ruoli per i quali può bastare – come recitano gli annunci di ricerca lavoro nel settore – una “conoscenza equivalente”. Brain Waste si dice in questi casi, in americano, uno dei tanti modi di nominare la corruzione del comune.

Note

 

(1) M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il pubblico e il privato, Rizzoli, Milano 2010. cit. pag.

(2) «Queste relazioni sociali, che diventano reali quando gli individui tentano di fare il migliore uso delle proprie risorse individuali, necessitano di essere considerate non solamente come componenti delle strutture sociali. Possono anche essere viste come risorse per gli individui (…) in quanto attributo della struttura sociale cui una persona è inserita, il capitale sociale non è proprietà privata delle persone che ne beneficiano» J. S. Coleman, Fundations of social theory, Cambridge University Press, 1990. Cit. pag. 300 – 315

(3) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica “Grundrisse”, vol. II, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1969. Cit. pag.  400 – 403

(4) Cfr. Gruppo d’inchiesta sulla precarietà e il comune in Calabria, “Sull’inchiesta politica nei call center calabresi”, in Quaderni di San Precario, n. 4, 2014. http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q4-Sull-inchiesta-politica-nei-call-center-calabresi.pdf

(5) F. M. Pezzulli, In fuga dal Sud. Migranti qualificati e poteri locali nel Mezzogiorno, Bevivino Editore, Milano 2009 (2 ed.). Sul valore della reciprocità nell’interazione d’intervista cfr. F. Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Bari 1981. 

(6) Paul Beaudry, David A. Green, B. M. Sand, “The Great Reversal in the demand for skill and cognitivity Tasks”, in NBER Working Paper, 18901, Marzo 2013. http://eprints.lse.ac.uk/58200/. Sulla tematica vedi anche le interessanti osservazioni di S. Cominu, “Innovazione capitalistica e composizione di classe”, in Commonware (02/12/2013)

(7) La frontiera delle machine learning è attualmente colonizzata dalle grandi corporation del settore, come dimostrano le strategie d’acquisizione di numerosi marchi da parte di Google e Mountain View. Cfr. N. Cavalli, “12 milioni di posti in meno. Cosi l’automazione manda all’aria il mondo del lavoro”, in Pagina 99, Anno I, n.20 (8-9/03/2014).

(8) F. W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 269.

(9) Paolo Greco, “Analisi di un call center”, in Uninomade 2.0 (27/05/2011). http://www.uninomade.org/analisi-di-un-call-center/

(10) AAVV, Idee per un cambiamento. Una ricerca sulle condizioni di lavoro nella realtà dei call center, INAIL – CGIL, Genova 2007 (pag. 72 – 102). www.inail.it/internet_web/wcm/idc/groups/internet/documents/document/ucm_portstg_115060.pdf

(11) Vedi Carlo Cuccomarino, Francesco Maria Pezzulli, “Tra Mirafiori e Bangalore”, in Il Manifesto (13/12/2012) http://www.uninomade.org/tra-mirafiori-e-bangalore/ Cfr. anche, sempre sul Manifesto, “La solitudine del telefonista” (05/07/2013). http://www.sudcomune.it/site/index.php/component/content/article/9-inchiesta/4-l-alienazione-nel-call-center

(12) Commonradio (27/11/2013; 19/02/2014). http://www.spreaker.com/show/sud-comune

(13) M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il pubblico e il privato, cit. pag. 257. Il ruolo degli informatici (e più in generale dei migranti qualificati) di “decompositori” delle formazioni sociali meridionali è stato ribadito – riferendosi ai lavori alla base del presente paragrafo – da Marco De Marco in Terronismo, Rizzoli, Milano 2011 (Cfr. Cap. 14 “Giovani in mare aperto ovvero i veri rivoluzionari oggi”).

(14) L. Gallino, “Produzione di software: organizzazione e qualità del lavoro”, in Quaderni di Sociologia, XXIX, 1980 – 81. Ripubblicato in L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino 1984 (cit. pag. 95). Dello stesso autore, sulle vicende dell’informatica nazionale, vedi il primo capitolo de La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.

(15) F. M. Pezzulli, In fuga dal Sud, cit. pag. 54

(16) Idem, pag. 27

(17) Sul processo di localizzazione dei soggetti vedi le fondamentali osservazioni di A. Appaduraj, Modernità in Polvere, Meltemi, Roma 2001. In particolare, pag. 231 – 257