Dall’università alla comune

Da oltre un mese gli studenti francesi sono in rivolta contro la Riforma dell’istruzione universitaria. Da parte governativa, le uscite di Macron («rilevo che in molte università occupate non ci sono studenti, ma agitatori di professione, professionisti del caos») lasciano intendere che il novello premier non abbia ancora inteso la portata della questione. Pubblichiamo di seguito un articolo degli studenti, significativo della maturità di approccio e degli obiettivi che questi si sono dati.  

in lundimatin del 03/04/2018; www.lundi.am

Dalla critica della selezione alla critica dell’istituzione scolastica

La breccia aperta dagli studenti liceali e universitari ci impone di riconsiderare il nostro approccio riguardo il movimento che si sta opponendo alla riforma dell’università e, più in generale, alla distruzione progressiva del servizio pubblico.

Se il potere non è qualcosa che si detiene e si possiede quanto, invece, un rapporto di forza in evoluzione permanente, allora l’istituzione è ciò che cristallizza questo rapporto di forza mascherando la sua dimensione contingente al fine di apparire come stabile ed eterna. Pertanto, l’effetto iniziale di qualunque gesto politico deve de-costruire l’istituzione, ricondurla alla sua precarietà essenziale e svelare il suo lato sconosciuto, ossia di essere costituita da un rapporto di dominio continuamente rimesso in gioco sotto la minaccia del suo rovesciamento.

L’attuale situazione e i contenuti politici rilanciati dal movimento liceale e universitario rendono possibile la formulazione di una critica dell’istituzione accademica che non sia prigioniera di scelte disastrose date, da un lato, dalla diserzione pura e semplice dalla scuola e, dall’altro, dall’invariabile riformismo che rivendica più mezzi per una scuola più «giusta» e più «equa».

In realtà, nessuna di queste due scelte è capace di sovvertire l’istituzione scolastica in quanto dispositivo di potere: l’una perché accetta il quadro nel suo insieme senza rimetterlo in discussione, salvo in maniera superficiale; l’altra perché si distacca completamente dall’istituzione rinunciando a lottare e, ciò facendo, la lascia del tutto immutata.

La diserzione, se opera una rottura soggettiva, una liberazione individuale o micro-collettiva rispetto al potere accademico, non guarda de facto alla scuola come ad uno spazio di lotta. Non si da i mezzi adeguati per attaccarla e per partecipare ai movimenti antagonisti che vi nascono. Quanto al riformismo, esso porta con sé il suo eterno corteo di mistificazioni, di compromessi impossibili e di sintesi fumose: la polizia locale, il capitalismo etico, la prigione dal viso umano, il nucleare responsabile, eccetera.

A noi spetta il compito di andare oltre questo binario morto, di tracciare una diagonale, una linea di fuga. Azzardiamo un confronto storico: tra la negoziazione sindacale e l’auto-licenziamento, vi è –  o meglio, vi è stata – l’autonomia operaia, il contropotere di massa, lo sciopero espropriativo e insurrezionale.

La scuola è dunque un’istituzione che investe e attraversa l’esistenza stessa dei soggetti e sui quali esercita, con un insieme di strategie e metodi, ovvero di «tecnologie di potere»: la formattazione dell’opinione, l’addestramento dei corpi, la normalizzazione dei comportamenti. A quale scopo? Allo scopo di produrre un certo tipo di umano, di fabbricare lavoratori docili e cittadini prevedibili – in sintesi, di prevenire qualsiasi inclinazione sospetta, di asfissiare la rivolta, di abolire l’ignoto. In realtà, la scuola è uno spazio essenziale dello sviluppo della lotta di classe, in cui si gioca quotidianamente l’asse egemonico del gruppo sociale dominante e la sua penetrazione in strati sempre più grandi della popolazione.

Come ha spiegato Foucault, è importante comprendere che il potere non è né buono né malvagio in sé (esso non si fa interpretare da questo tipo di giudizio puramente morale), ma produce dei modi di soggettivazione, degli effetti positivi e negativi che permettono di giustificare la sua esistenza, proprio come, inevitabilmente, delle forme rinnovate di resistenza e di rifiuto. In questo senso, il periodo che va dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni ha conosciuto differenti fasi di democratizzazione scolastica, specialmente con l’aumento della durata della scolarizzazione. La diffusione dei saperi teorici e pratici ha permesso di produrre un soggetto sociale sempre più esteso numericamente, ma ha ugualmente accentuato un processo di classificazione e di contraddizione che è al cuore dell’ordine capitalista: la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Come noi sosteniamo, l’istituzione del sapere – la scuola – si presenta come un ingranaggio fondamentale del capitalismo in quanto essa assicura la sua stessa sopravvivenza, attraverso la formazione di futuri lavoratori che avranno ricevuto un’educazione costruita, elaborata, modellata dal gruppo dominante.

La forza numerica della gioventù scolarizzata non può sempre essere ridotta a uno stato di passività e di obbedienza, come la storia ha dimostrato più di una volta. E, se il ventaglio delle possibilità d’azione è ampio, le condizioni socio-economiche considerate oggettive non consentono ovviamente di spiegare da sole la messa in movimento di questa forza. Per decostruire l’egemonia dominante, per metterla in crisi, è necessario comprendere le tendenze profonde che operano in seno alla gioventù, in particolare i riferimenti culturali che potrebbero essere restituiti, e servire in prospettiva di un rovesciamento dei rapporti sociali.

Per un sapere combattente: l’università del Comune

La giornata di sciopero del 22 marzo ha permesso di mobilitare il movimento liceale e universitario contro la selezione. In numerose università è infatti stato votato lo sciopero e il blocco e le occupazioni si sono moltiplicate. Come abbiamo detto in un precedente scritto – «Dalle assemblee alla vittoria» – le occupazioni si confrontano continuamente con il problema della loro impreparazione e del proprio vuoto politico: molto spesso, l’entusiasmo iniziale, condiviso da tutti, si ferma dinanzi all’assenza di prospettive e alla mancanza di una riflessione strategica sul senso da far assumere all’occupazione. Liberarsi dalla temporalità capitalista, riappropriarsi di uno spazio-tempo comune, dovrebbero invece permettere di poter organizzare delle discussioni sul cuore dei problemi politici che la situazione presenta, più che sulla loro forma.

Per noi, l’occupazione deve essere sentita come un punto di partenza, un territorio aperto verso l’esterno, come un riferimento all’interno del diagramma generale del movimento, capace di produrre un contro-discorso, un’interpretazione partigiana della situazione. Si deve, all’occasione, resistere alla tentazione di essere-tra-studenti, e invitare, per quanto è possibile, altre componenti della lotta a raggiungere i luoghi occupati e anche lavorare alla produzione di nuovi discorsi, di un «sapere combattente» emancipato dal controllo dell’istituzione scolastica, che permetterebbe di rivedere la rotta del movimento, da un punto di vista rivoluzionario.

Questo è stato detto e ridetto (giustamente): commemorare il ‘68 non ci interessa. Ciò che vogliamo è piuttosto ricominciare. Ma ricominciare suppone, tra le altre cose, avere del ‘68 una lettura più precisa e autentica, in tutti i casi spoglia delle ricostruzioni storiche che non smettono di nasconderne il cuore sovversivo – che siano condotte dalla propaganda di Stato o dalle falsità di vecchi militanti poi rinnegati. Perché allora non usare gli spazi disponibili per incontri con i protagonisti dell’epoca (studenti, operai, sindacalisti di base, attivisti di tutte le sensibilità), per invitare i ricercatori che hanno lavorato su questo periodo che, al di là dei suoi limiti, resta un miracolo di espansione politica e di organizzazione collettiva, e permette di ispirare le nostre azioni? Dal momento in cui molti chiedono di non girarci intorno, fare un passo indietro permetterebbe di farne due in avanti. 

Come si sa, le occupazioni furono al centro dell’evento Maggio ‘68. E non sarebbe inutile apprezzare oggi la maniera in cui queste consentirono di far passare la lotta ad un livello superiore di intensità e di indipendenza rispetto alle catene burocratiche. Ovunque si leggeva un solo ed unico impegno: incoraggiare, accelerare gli incontri tra studenti e operai in maniera diretta e autonoma, costruire un campo rivoluzionario inedito, tanto più potente quanto più molteplice e unito in questa molteplicità. L’episodio più celebre è stato senza dubbio l’occupazione del Théâtre d’Odeon, che ha dato vita ad una liberazione inedita della parola e delle forme d’espressione artistica proprio mentre diventava un luogo di comunicazione per la totalità del movimento, di discussione con gli operai rivoluzionari – numerosi nel raggiungerli. Affianco, dei comitati d’azione e dei gruppi di base proliferavano ovunque, in particolare nelle fabbriche, molte delle quali sono state occupate. Alla fabbrica Renault-Flins – a titolo di esempio – gestita da più settimane da alcuni operai che rifiutavano l’appello congiunto dello Stato e della CGT a riprendere il lavoro, lo sgombero brutale condotto dalla polizia a inizio giugno diede luogo ad una rivolta di grande respiro. Si assistette soprattutto ad un’alleanza in atto tra gli operai che occupavano il sito e le centinaia di studenti venuti a dar loro soccorso e a battersi a loro volta. Questo momento rimarrà un punto di riferimento del processo d’organizzazione che si sviluppò da maggio-giugno del ‘68 fino a tutti gli anni ‘70. 

Occupare uno spazio non deve più essere percepito come un semplice mezzo di pressione, come uno strumento per contrastare il piano del governo e imporre la nostra volontà sullo Stato. Ciò che rende operativa un’occupazione risiede nel suo contenuto positivo, nell’affermazione politica di cui è portatrice e nella qualità delle relazioni che vi si tessono. In ciò, l’esperienza della “Zone à Défendre” di Notre Dames Des Landes è un esempio calzante. Più che l’opposizione comune alla costruzione di un aeroporto, vi è un’elaborazione collettiva di tutto un insieme di attività, progetti, forme di organizzazione – insomma l’elaborazione di una vera contro-società, che ha determinato il radicamento della resistenza e ha contribuito a rinnovare l’immaginario rivoluzionario. 

Oggi, uscire dalla nostra posizione di debolezza passa attraverso la nostra capacità di percepire le occupazioni studentesche come la costruzione pratica, qui ed ora, di un’«università del Comune». Un luogo in cui si formino e sviluppino i diversi settori di lotta contro la politica governamentale e la sua visione di un mondo in cui regna senza limiti il mercato, l’individualismo e la competizione; uno spazio in cui potrebbero emergere, come a Nantes, dei comitati autonomi in grado di favorire gli scambi fra le reti, per distruggere le separazioni che ci impoveriscono. Un luogo che dovrà allo stesso tempo inventare un nuovo sapere collettivo più profondo di quello del sistema accademico, una nuova intelligenza strategica più esigente di quella delle direzioni dei sindacati, una nuova comunicazione tra i mondi più intensa di quella delle assemblee burocratiche. Facciamo dei nostri spazi liberati altrettante basi di riferimento per un’ascesa in potenza del movimento sociale, dotandoci di mezzi per la vittoria. 

Qualche autonomo

(traduzione di Marco Spagnuolo)