Con i gilet gialli: contro la rappresentanza, per la democrazia

di PIERRE DARDOT E CHRISTIAN LAVAL (in globalproject.info, gennaio 2019)

Raramente nella storia un Presidente della Repubblica è stato così odiato come lo è oggi Emmanuel Macron. Il suo solenne discorso televisivo del 10 dicembre e le briciole che distribuisce con “compassione” ai più poveri, senza invertire in alcun modo le misure ingiuste che aveva incoraggiato o deciso – prima come consigliere di Hollande, poi come ministro dell’Economia e infine come presidente – non cambieranno questo dato di fatto.
La spiegazione di questo rifiuto massiccio è ben nota: il disprezzo di classe che ha dimostrato, sia nelle azioni che nelle parole, gli viene restituito con violenza, con tutta la forza di una popolazione arrabbiata, e non c’è nulla di più meritato. Con la sollevazione sociale dei gilet gialli, il velo si è strappato, almeno per un po’. Il “nuovo mondo” è quello vecchio in peggio: questo è il messaggio principale inviato da chi dallo scorso novembre indossa il gilet giallo.
Nel 2017, Macron e il suo partito-azienda «En marche» hanno sfruttato il profondo odio della classe operaia e della classe media nei confronti dei governanti che fino ad allora avevano solo peggiorato la loro situazione lavorativa e di vita per imporsi contro ogni aspettativa nella corsa alla presidenza. In questa scalata istituzionale, Macron non ha esitato a utilizzare cinicamente il registro populista del dégagisme e di una finta “verginità” politica per vincere, lui che non è mai stato nient’altro che il «candidato dell’oligarchia», in particolare di quella corporazione élitaria che fa capo all’ispettorato finanziario[1].
L’operazione è stata grezza, ma ha funzionato per difetto. Ha vinto, con idee minoritarie, con un doppio voto di rifiuto, al primo turno dei partiti neoliberali-autoritari (i partiti gemelli Socialista e dei Repubblicani) e al secondo turno della candidata del partito neofascista francese. Come rinnovamento, dalla primavera del 2017, gli elettori hanno vissuto un aggravamento e un’accelerazione senza precedenti di tutto ciò che avevano precedentemente respinto. Sono stati colpiti da una marea di misure che, una dopo l’altra, hanno indebolito il potere d’acquisto e la capacità d’azione della classe operaia e media, a beneficio delle classi più privilegiate e delle grandi imprese.
I recenti sondaggi su questo punto non possono indurre in errore: la divisione di classe è evidente nelle condanne della politica macroniana. Che il ripristino dell’imposta patrimoniale, l’aumento delle minima socieaux e del salario minimo e il ripristino dell’indicizzazione delle pensioni si riflettono nelle principali richieste dei gilet gialli, che vanno ben oltre l’abolizione dell’aumento dell’imposta sul carburante e la moratoria sul costo dell’elettricità e del gas: questo dice molto sul significato sociale del movimento. Solo la sfacciata propaganda del governo, che lo ha paragonato alle “Lega di estrema destra del 1934”, trasmessa con compiacenza dai media servili, da alcune influenti personalità mediatiche o da alcuni leader sindacali fuorviati, potrebbe indurre a credere che il movimento fosse intrinsecamente fascista.
Va detto e ripetuto qui con forza: se l’estrema destra ha cercato di recuperare questa rabbia popolare, e se alla fine avrà successo, sarà solo grazie al fallimento della sinistra politica e dei sindacati nella loro funzione di difesa degli interessi sociali delle classi subalterne. I gilet gialli, che piaccia o no, hanno ottenuto ciò che trent’anni di lotte sociali non sono riusciti ad avere: porre la questione della giustizia sociale al centro del dibattito. Meglio ancora, hanno chiaramente imposto la questione, fondamentale per tutta l’umanità, del legame tra giustizia sociale e giustizia ecologica.
Una rivolta anti-neoliberale
Questa rivolta sociale può essere compresa solo rapportandola al tipo di trasformazione che l’attuale governo intende rafforzare attraverso l’accanimento fiscale e la brutalità normativa. La «rivoluzione» macroniana non è nient’altro che la realizzazione radicale e affrettata di una concezione dominante della società basata su concorrenza, performance, redditività, efficienza e sul flusso («ruissellement») di ricchezza che si muove dal basso verso l’alto. Estendendo una costante politica di esenzione fiscale per il capitale e le imprese, ha proseguito e amplificato il trasferimento degli oneri fiscali e sociali verso le famiglie, soprattutto le più modeste, aumentando le imposte più inique sui consumi in nome della “competitività”. In altre parole, è stato scegliendo la strada più puramente neoliberale che Macron ha cercato di trasformare la Francia, provando così, attraverso questa “rivoluzione” che ha venduto come programma politico, a diventare lo strumento del padronato, dei commissari europei e degli investitori internazionali. Non è stato il primo, probabilmente non sarà l’ultimo, ma ha voluto eccellere in questo, facendo meglio di Sarkozy e Holland messi insieme.
Ma probabilmente non ha avuto le spalle abbastanza larghe o l’abilità di trasformare i «galli refrattari al cambiamento», gli “analfabeti” e il “popolo del nulla”, in seguaci della “start up nation” e sostenitori della riduzione del costo del lavoro. Gestire lo Stato e gestire il governo come il capo di una grande multinazionale, secondo i nuovi standard della funzione pubblica di alto livello convertita agli ideali capitalistici, non è stato sufficiente. La centralizzazione e la verticalità della Quinta Repubblica, la repressione poliziesca a oltranza, l’irreggimentazione, fino alla distruzione, di una maggioranza parlamentare composta da blandi neofiti e opportunisti autorizzati, sono stati finora istituzionalmente potenti, ma non sufficienti a far accettare alla popolazione il deterioramento delle loro condizioni di vita e la riduzione della loro capacità d’azione, sia a livello comunale che sul posto di lavoro. La vita reale ha prevalso sulle illusioni di un’oligarchia accecata dalla sua “verità” e che ha creduto che il suo tempo fosse giunto con l’elezione miracolosa di un presidente infantilmente ubriaco di onnipotenza politica che gli veniva data da istituzioni fondamentalmente antidemocratiche. La rivolta sociale dei gilet gialli, sopprimendo la macchina neoliberale di Macron, ha mostrato i limiti di quello che definiamo bonapartismo manageriale.

Un’ultima manovra?
Questa pratica governativa autoritaria ha fatto sì che il neoliberismo raggiungesse un punto di rottura. Indubbiamente gli attuali governanti, sostenuti dalla classe padronale, stanno tentando una manovra finale, la cui natura è già intuibile, che consiste nell’utilizzare la crisi sociale e politica per rafforzare la neo-liberalizzazione della società, in maniera più sottile rispetto alla “Blitzkrieg” della prima stagione di Macron.
Conosciamo già i principali argomenti. Il primo, con l’indiscutibile sostegno etico di tutte le emittenti televisive e radiofoniche, è il solito richiamo all’ordine di fronte alla “violenza” unilateralmente attribuita ai manifestanti, naturalmente complici dei saccheggi fatti dai “giovani delinquenti”. Spaventare e allo stesso tempo cercare l’aiuto di tutte le forze “responsabili” non è solo esonerare il governo dalle proprie responsabilità, ma anche mascherare tutte le violazioni delle libertà più fondamentali come il diritto di manifestare (2000 arresti arbitrari), e giustificare i metodi violenti usati dalle forze di polizia contro i manifestanti (in particolare l’uso pericoloso dei flashballs e delle cosiddette granate a frammentazione). Da questo punto di vista, l’umiliazione collettiva imposta agli studenti delle scuole superiori di Mantes-la-Jolie ricorda i peggiori metodi del colonialismo, in continuità con il “trattamento” subito dalla rivolta del 2005, e rende particolarmente rivoltante il discorso di Ségolène Royal.
Il secondo è quello di estrapolare dalle disparate richieste dei manifestanti tutto ciò che va nella direzione della riduzione della spesa pubblica. Questa è la tattica già scelta da Geoffroy Roux de Bézieux, portavoce del MEDEF, che non esita a lodare l’efficacia della riduzione fiscale di Trump! Trasformare questa grande mobilitazione sociale in un movimento neo-poujadista di piccole imprese schiacciate da imposte e oneri sociali, spinto dal ras-de-bol fiscale piuttosto che dall’ingiustizia sociale, ha il vantaggio di far credere che l’unico modo per aumentare il potere d’acquisto è quello di ridurre la quota socializzata del reddito e ridurre l’offerta di servizi pubblici grazie a tagli fiscali (cosa di cui non ci sarebbe dubbio in un contesto di riduzione della spesa militare e di polizia). A meno che, in un modo più sarkoziano, e questa sembra essere la scelta di Macron, non si tratti di incoraggiare il lavoro straordinario esente da imposte, come il MEDEF sogna di fare. Questo ovviamente evita di toccare i privilegi fiscali dei più ricchi, la libertà concessa loro per evadere la ricchezza, gli scandali della CICE e del CIR, dispositivi che, senza contropartita, né controllo né costrizione, consistono nel trasferire decine di miliardi a società non bisognose.
Questa manovra richiederà la nomina di capri espiatori, ovviamente. Perché non prendere di mira non i “ricchi”, come probabilmente vorrebbe la maggior parte dei gilet gialli, ma i funzionari di base, troppi, troppo ben pagati, non abbastanza produttivi? Perché non chiedere loro ulteriori sacrifici in nome della solidarietà con i più poveri? Sappiamo che tra i corpi intermedi sindacali alcuni hanno già la penna in mano per ratificare le più palesi involuzioni sociali. A meno che, e questa non è la parte meno scandalosa del discorso presidenziale, non si tratta di rimettere la “questione dell’immigrazione”, o addirittura l’Islam, al centro del dibattito, anche se non è affatto al centro dei discorsi dei gilet gialli.

Le due vie
Tuttavia, l’intervento televisivo di Macron del 10 dicembre non ha ancora messo in gioco nulla. Non c’è alcuna garanzia che la rabbia non rientri presto nei suoi ranghi, anche se sarebbe molto sorprendente, visto che il potere è così sotto scacco. Altre due strade si apriranno presto all’interno della società francese, come tutte le società del mondo. La strada nazionalista, protezionista, protezionista, iperautoritaria, antiecologica, quella di Trump, Bannon, Salvini, Le Pen, Bolsonaro, Orban o Erdogan, che prospera in tutto il mondo sfruttando tutte le frustrazioni e i risentimenti generati dal neoliberismo. Lungi dall’essere un’alternativa a quest’ultimo, questo percorso ne è una nuova versione storica, radicalmente antidemocratica, in un momento in cui le conseguenze sociali, politiche e ambientali della crisi mettono al centro la questione di un cambio radicale del sistema economico e politico. Si tratta di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro, dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione le leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Trump è ora il campione di tutta questa linea ed è molto assistito in questo ruolo da Macron.
La strada democratica, ecologista ed egualitaria, che si è radicata da diversi decenni in tutte le lotte sociali e di resistenza al neoliberalismo, nell’alterglobalismo, nei movimento di piazza, nei molteplici laboratori dei commons, è l’unica capace di evitare il collasso degli ecosistemi e la disintegrazione e frammentazione delle società. L’unico difetto è che non ha ancora un’espressione maggioritaria e una nuova forma politica. Ha sofferto prima del tradimento della sinistra di governo, in particolare della sinistra “socialdemocratica”, ed è ora tragicamente indebolita dalle divisioni in seno ai leader delle organizzazioni, più interessati ai loro interessi di bottega che alla loro responsabilità storica.
La questione più attuale riguarda se l’insorgenza dei gilet  gialli permetterà alla linea democratica, ecologica ed egualitaria di prevalere sulla linea identitaria, nazionalista, fascisteggiante, che ha vinto in Italia e ora in Brasile.

Il rifiuto della rappresentanza politica e l’auto-organizzazione del movimento
Come è stato spesso osservato, il movimento riunisce individui di classi diverse, età diverse, opinioni diverse. Alcune derive di tipo razzista, misogino o dichiaratamente fascista si sono verificate, e possono ancora verificarsi qua e là, e persino svilupparsi. Saccheggi e rotture di negozi da parte di bande giovanili hanno avuto luogo in alcune parti della capitale e in diversi centri cittadini, che sono serviti come alibi per screditare il movimento. Tuttavia, non è questa la logica profonda del movimento, che è diverso, plurale e spesso animato alla base dalle donne. Se qualcuno ha provato a identificare dei leader, questi non sono in alcun modo i legittimi rappresentanti di un movimento che rifiuta qualsiasi utilizzo della rappresentanza.
La logica attuale e profonda del movimento non è quella di affidarsi a un leader che incarna il popolo, che piaccia o meno ai teorici populisti, per i quali è il leader che fa il popolo e dà loro l’unità. Né si tratta di rinnovare la “rappresentanza nazionale” dopo il suo scioglimento, indipendentemente dal fatto che i leader di France Incoumise o del Rassemblement National cerchino di incanalare il movimento sul campo parlamentare. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che se la partita fosse questa, sarebbe il partito neofascista a vincerla. Senza pregiudicare l’esito del movimento dei gilet gialli, la prima lezione che si può trarre è la capacità istituente che hanno dimostrato, rifiutando in anticipo qualsiasi recupero e basandosi solo sulla loro forza collettiva per farsi ascoltare e formulare le loro rivendicazioni, senza calcoli tattici e partendo dalle condizioni insopportabili vissute da individui reali e fino ad allora invisibili.
Ciò che è stato presentato dai media come la principale debolezza del movimento, la sua “incapacità” di essere rappresentato, è tuttavia la sua caratteristica più importante, la cui portata deve essere compresa: non è “incapacità”, ma è il rifiuto in linea di principio di qualsiasi rappresentanza. E questo rifiuto è pienamente giustificato. Che questa sia la conseguenza di una profonda crisi di legittimità dei governi, dei funzionari eletti, dei media e persino dei sindacati, crisi causata e accentuata dalla radicalizzazione neoliberale delle oligarchie, non c’è dubbio. Ma c’è un altro aspetto, che difficilmente notano i commentatori e che è tuttavia la controparte positiva di questo rifiuto. Di fronte alla crisi della democrazia rappresentativa, la risposta più spontanea dei gilet gialli è stata l’auto-organizzazione di azioni, blocchi e manifestazioni, fino all’elaborazione collettiva, durante gli incontri e le assemblee, delle rivendicazioni.
Una meravigliosa lezione per i partiti e le organizzazioni sindacali, il cui riflesso tradizionale è quello di controllare le masse e di portarne al ribasso le richieste, le indicazioni e gli slogan. Non è più Nuit Debout, senza dubbio, ma punto in comune con l’occupazione di quelle piazze è il desiderio di protagonismo nelle vicende collettive. L’appello dei gilet gialli di Commercy è un esempio dello spirito di democrazia diretta che anima i comitati di base. Vale la pena di citarne alcuni estratti:
Qui a Commercy, nella Mosa, abbiamo operato fin dall’inizio con assemblee popolari quotidiane, dove ogni persona partecipa su base paritaria. Abbiamo organizzato blocchi di città, stazioni di servizio e caselli autostradali. Nel frattempo abbiamo costruito una capanna nella piazza centrale. Ci incontriamo ogni giorno per organizzarci, decidere le prossime azioni, dialogare con le persone e accogliere coloro che si uniscono al movimento. Organizziamo anche “minestre di solidarietà” per vivere insieme momenti belli e conoscerci. In tutta uguaglianza. Ma ora il governo, e alcune frange del movimento, propongono di nominare rappresentanti per regione! In altre parole, alcune persone che diventerebbero gli unici “interlocutori” delle autorità pubbliche e riassumerebbero la nostra diversità. Ma non vogliamo “rappresentanti” che finiscono necessariamente per parlare per noi! (…)Non è per capire meglio la nostra collera e le nostre esigenze ed esige che il governo voglia “rappresentanti”: è per supervisionare e seppellirci! Come per i dirigenti sindacali, sta cercando intermediari, persone con cui poter negoziare, su cui può esercitare pressione per calmare l’eruzione.Persone che può recuperare e spingere a dividere il movimento per seppellirlo.
Ma questo non tiene conto della forza e intelligenza del nostro movimento. Per non parlare del fatto che stiamo pensando, organizzandoci, cambiando le nostre azioni che li spaventano così tanto e amplificando il movimento! E, soprattutto, c’è una cosa molto importante che il movimento dei gilet gialli richiede ovunque in varie forme, ben oltre il potere d’acquisto! Questa cosa è potere al popolo, dal popolo, per il popolo. Si tratta di un nuovo sistema dove “coloro che non sono niente”, come si dice con disprezzo, riprendono il potere su tutti coloro che si ingozzano, sui leader e sul potere del denaro. E’ l’uguaglianza. Questa è giustizia. È la libertà. Questo è quello che vogliamo! E parte dalla base!
Se nominiamo “rappresentanti” e “portavoce”, alla fine ci renderemo passivi. Peggio ancora: avremo rapidamente riprodotto il sistema e la funzione dall’alto verso il basso come i furfanti che ci guidano. Questi cosiddetti “rappresentanti del popolo” che si riempiono le tasche, che fanno leggi che rendono la nostra vita miserabile e servono gli interessi degli ultra-ricchi! Non lasciamoci coinvolgere nella spirale di rappresentanza e recupero. Non è il momento di dare la nostra parola a una manciata di persone, anche se sembrano onesti. Che ci ascoltino tutti o nessuno.
Da Commercy, quindi, abbiamo chiesto la creazione di comitati popolari in tutta la Francia, che operano con regolari assemblee generali. Luoghi dove la parola è libera, dove le persone osano esprimersi, allearsi e aiutarsi a vicenda. Se ci devono essere delegati, è solo a partire da ogni comitato popolare locale di gilet gialli, il più vicino possibile alla parola del popolo. Con mandati obbligatori, revocabili e rotanti. Con trasparenza. Con fiducia.
Chiunque abbia visto gli autori di questo appello turnarsi davanti al microfono per evitare qualsiasi cattura della parola da parte di un “rappresentante” capisce immediatamente la profondità dell’esigenza democratica che guida questo movimento. Ancora una volta, questa è molto più di una diffidenza, è un rifiuto di sostituzione, per cui una minoranza si assume il diritto di parlare e agire al posto di un maggior numero di persone. La grande lungimiranza di questa dichiarazione ha avuto subito riscontri: dal 6 dicembre, i “rappresentanti sindacali”, con la notevole eccezione di Solidaires, si sono messi subito in aiuto di un Macron totalmente isolato, provocando una rivolta all’interno della stessa CGT. I famosi “corpi intermedi” fanno pienamente parte della logica della rappresentanza ed è per questo che possono solo aiutare Macron a riprendere il controllo, lungi dal poter dare luogo a un esito positivo della crisi del regime.
Naturalmente, non c’è alcuna garanzia che le possibilità aperte da questa democrazia in azione si possano realizzare. L’unica cosa che conta in questo momento è che vale la pena lottare per ottenere questo risultato. Lasciamo i neo-blanquisti della “prossima insurrezione” e gli altri celebranti della “violenza pura” con il loro disprezzo per l’invenzione democratica. Anche i casseur che si innestano sulle manifestazioni e che non partecipano in alcun modo alle decisioni collettive contribuiscono ad espropriare il movimento della sua democrazia interna. La questione è se lo spirito profondamente democratico del movimento sia abbastanza profondo da perpetuare se stesso e immunizzare la società dalle tentazioni fascisteggianti che potrebbero svilupparsi se fallisce e marcisce. E questa domanda implica ovviamente la nostra responsabilità, tutta la nostra responsabilità.

Il quietismo politico è una colpa
Uno strano ragionamento rivela il profondo imbarazzo di una parte della cosiddetta “sinistra radicale” di fronte a questo singolare e inedito movimento che vanifica tutte le categorie del suo lessico politico convenzionale. Consiste nell’affermare che un tale movimento “rischia” di prendere una deriva negativa, reazionaria o fascisteggiante, in quanto non offre tutte le garanzie necessarie per rassicurarci sul suo futuro politico. È questa constatazione del rischio che determina un atteggiamento prudente, se non addirittura il rifiuto di impegnarsi con chi non soddisfa i criteri canonici di “popolo”, il vero, colui che porta i valori autentici della sinistra, che si identifica con i suoi obiettivi e le sue lotte e che non rischia di essere trascinato giù per il pendio del fascismo.
Questo ragionamento conduce a due osservazioni. Il primo riguarda l’uso della parola “popolo”. Chiaramente, è investito qui con un significato molto ideale: è “il” popolo al singolare, concetto con cui le persone reali, necessariamente impure e variegate, impallidiscono, chiamate a conformarsi a questo ideale per poter rientrare all’interno diquesta prestigiosa denominazione. Se non lo si fa, si giustifica il fatto di essere abbandonati e lasciati a se stessi. Purtroppo, questo popolo ideale non esiste, se non nel cielo quasi platonico della sinistra immutabile. Né “il” popolo è inteso come “comunità di cittadini”, così caro alla tradizione cosiddetta “repubblicana” e ritualmente risorto in ogni grande elezione contemporaneamente alla mistificazione dell'”interesse generale”, che non è nient’altro che un popolo costruito su misura dalle istituzioni politiche esistenti per il maggior beneficio dell’oligarchia.
Questa ambiguità deve essere risolta: le persone reali non sono mai le persone ideali. Lasciamo il sogno delle persone ideali ai burocrati e ad altri avanguardisti dei brevetti. All’indomani della rivolta popolare del 17 giugno 1953 a Berlino Est, Brecht aveva già chiesto: “Non sarebbe più facile per il governo sciogliere il popolo ed eleggerne un altro?[2] A meno che non si tratti di una richiesta non meno stravagante come “cambiamo il popolo!”, che senza dubbio protegge da qualsiasi delusione, dobbiamo attenerci all’eterogeneità e all’impurità del popolo. Tutto il resto è un diversivo. Dobbiamo quindi astenerci dal distinguere tra “popolo sociale” e “popolo politiche”? Le persone sociali sono definite dalla povertà e dalla miseria, al contrario delle élite o oligarchie, ma non sono omogenee e unificate, tanto da essere attraversate da tensioni e contraddizioni, come vediamo oggi. Il vero popolo politico non è il popolo dell’elettorato, né il popolo definito sociologicamente dalla povertà o dalla miseria, è il popolo che agisce, il popolo attore che inventa nuove forme di auto-organizzazione in azione.
Questo popolo non è mai “il” tutto, è sempre solo una parte, ma è quella parte che apre nuove possibilità al “tutto”, cioè a tutta la società. È questa parte che è ora in movimento, e che basta a determinare se stessa. Il “popolo di sinistra” non è altro che una falsa invenzione dei vecchi partiti la cui unica funzione è quella di riattivare la loro base elettorale all’approssimarsi di certe consultazioni o quando sono messi in difficoltà. Più in generale, ci sono solo “popoli”, la cui comparsa è imprevedibile e ogni volta singolare, e l’Un-Tout è solo un’illusione mortale. La coincidenza del popolo sociale e politico in una fantasia da “grande soir” è solo un mito che la sinistra critica deve dissipare una volta per tutte.
La seconda osservazione riguarda la conclusione pratica che questa argomentazione è intesa a giustificare. Per quanto possa sembrare sorprendente, tale ragionamento non è privo di qualche somiglianza con un argomento molto antico, conosciuto nella filosofia greca come «argomento pigro». Cicerone lo espone nel suo Trattato sul destino, dicendo che se lo ammettessimo, rimarremmo in completa inazione per tutta la vita. In fondo dice questo: se sei malato e il tuo destino è guarire, guarirai, che tu chiami o no il medico; ma se il tuo destino non è guarire, che tu chiami o no il medico, non guarirai. Ma il tuo destino è guarire o non guarire. È quindi inutile per voi chiamare il medico[3]. Questo si definisce argomento pigro perchè giustifica l’astensione di qualsiasi azione e tende al quietismo (da quies che in latino significa riposo). Ci opponiamo a tale approccio perché chi mette in guardia contro il pericolo di una deriva destrorsa del movimento dovrebbe rifiutarsi di invocare il destino o la fatalità e assumersi dei rischi, cioè delle semplici possibilità. Ma la questione è proprio quale atteggiamento adottare nei confronti di quelle che attualmente sono solo “possibilità”.
La virtù dell’approccio proposto è di evidenziare che l’atteggiamento quietista deriva dalla non assunzione di possibilità. Ragioniamo come se la realizzazione di una possibilità piuttosto che di un’altra fosse completamente indipendente dalla nostra azione. Ci diciamo a noi stessi, senza osare veramente ammetterlo: se la peggiore possibilità si avvererà, si avvererà, che interveniamo o meno per cerca di evitarlo. E’ qui che troviamo il “sofisma dei pigri”. Ci mettiamo nella posizione di colui che libera in anticipo la propria responsabilità. La premessa che sta alla base di questo atteggiamento è che non importa quale sia la possibilità, anche se fosse la peggiore, noi non avremmo nulla a che fare con essa. Sia che questa possibilità avvenga o non avvenga, in entrambi i casi sarebbe inutile intervenire. Se per caso accadesse, la responsabilità è respinta in anticipo rispetto alle inadeguatezze e le ambiguità del movimento.
Tuttavia, astenersi dall’intervenire nel concreto non è semplicemente osservare dall’esterno il corso di un’evoluzione, ma è, che lo neghiamo o meno, promuovere la realizzazione della possibilità più preoccupante e minacciosa, quella che maggiormente giustificava il rifiuto di agire. È ancora più facile dire “te l’abbiamo detto” in seguito, perché tu stesso hai contribuito direttamente a fare di questa possibilità negativa una realtà. Oggi, in particolare, è importante mettere in guardia contro un tale atteggiamento: il quietismo politico gioca nelle mani dell’avversario, ed è per questo che è imperdonabile. L’urgenza ci impone di agire nel movimento così com’è e con i gilet gialli, assumendoli come sono e non come vorremmo che fossero, sostenendo risolutamente tutto ciò che va nella direzione dell’auto-organizzazione e della democrazia. Ripetiamo, non è ancora finita. Il presente è nuovo, il futuro è aperto e la nostra azione conta, qui e ora.

[1] Laurent Mauduit, «Emmanuel Macron, le candidat de l’oligarchie», 11 juillet 2016
[2] Bertolt Brecht, « La solution », in Anthologie bilingue de la poésie allemande, 1993, La Pléiade, p. 1101.

[3] Cicéron, Traité du Destin, Les Stoïciens, 1978, La Pléiade, p. 484.