Le lotte calabresi sui rifiuti sono lotte per il comune

di CARLO CUCCOMARINO (in Commonware.org, maggio 2014)

Riprendiamo alcune considerazioni in vista della manifestazione di sabato prossimo 10 maggio a Cosenza, indetta dalla Rete Difendiamo la Calabria, che rappresenta le istanze di tutti quei Comitati Territoriali che sono rinati e che tendono ad una “politica dei governati” e alla possibilità di “liberare la forza della cooperazione sociale”.
Questo fiorire di Comitati rende difatti possibile una “politica di riappropriazione del territorio” con la quale si possono sviluppare le “ragioni comuni” di una buona parte, sicuramente quella più attiva, della popolazione calabrese contro le “ragioni individuali” di pochi privati arricchitisi grazie ad un “sistema politico-clientelare neofeudale”. 
La Rete, forte dei processi politici attivati con i Comitati, denuncia tale stato di cose, che si determina all’interno di una lunga crisi economica che ormai da molti anni si riversa, con tutta la sua violenza, sulle vite dei calabresi. La Rete, nel sollecitare la “gestione comune e partecipata”, denuncia un “sistema” come quello della “raccolta dei rifiuti” che negli ultimi 17 anni, in Calabria, tra emergenze e regimi commissariali, ha visto come unico e vero risultato l’arricchirsi dei pochi e soliti noti.
Una “massa di soldi per pochi” gestiti da un sistema neofeudale che, con molta parsimonia, le varie amministrazioni regionali di centro-destra e centro-sinistra hanno saputo allestire e gestire. Esse hanno avuto come unico fine quello di preservare e garantire gli interessi materiali degli stessi governanti insieme a quelli delle loro clientele, costituite in base agli interessi privati e personali di alcune figure del mondo imprenditoriale locale e non solo. È’ l’Amministrazione Regionale, di fatto, a gestire il flusso di denaro pubblico che passa, appunto, dalle risorse pubbliche regionali agli amici privati, che spesso ricoprono il ruolo di capi elettori. Ancora una volta, nell’incubo di una crisi senza fine, vediamo imporsi con forza le “ragioni dei pochi sui molti”, o meglio gli “interessi di pochi sugli interessi degli altri”.
 Gli effetti scellerati di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti e ampiamente denunciati, in questi anni, dai percorsi e dalle esperienze di lotta dei singoli Comitati Territoriali.
 I rifiuti che hanno invaso le città calabresi nei mesi scorsi non sono, dunque, frutto di una emergenza o di un evento imprevedibile o inaspettato, ma sono la conseguenza di scelte e logiche della “politica dei governanti” che fa diventare i rifiuti un business per pochi affaristi, tra cui ovviamente loro. Scelte, logiche e soggetti politici a dir poco scellerati. Il “modello gestionale” che questi hanno impiantato ha visto, negli ultimi diciassette anni, oltre 1 miliardo di euro di “fondi” rifluiti nelle tasche delle “lobby dei rifiuti” che hanno portato al collasso il “sistema regionale del ciclo dei rifiuti”.
Con il ritorno alla “gestione ordinaria” dei rifiuti le aspettative verso la chiusura di una stagione di emergenze e regimi commissariali crescono. Una fragile speranza, in tal senso, si fa timidamente strada tra la popolazione dei territori calabresi con la restituzione del “momento decisionale” alla “politica dei governati”. Ma per chi, da quasi due decenni, ha assistito all’avvicendarsi di amministrazioni di centro-destra e di centro-sinistra senza vedere scalfito il “sistema” al quale abbiamo accennato, non ci sono difficoltà per capire a cosa questo “sistema” sia stato funzionale: ad una idea precisa di governare i propri territori e le popolazioni che lì vivono, dove gli interessi dei pochi devono prevalere sugli interessi e i destini della maggioranza della popolazione.
Con le due ordinanze in deroga, entrambe del 2013 a firma dell’ex-Presidente Scopelliti, è stato permesso di versare il “rifiuto tal quale” nelle discariche calabresi. Ogni tipologia di rifiuto viene così sversata in discarica senza alcun trattamento e contro le leggi in materia, esponendo ad un indebitamento progressivo gli enti pubblici, ed all’inquinamento progressivo il territorio spesso divenuto insalubre e inadatto alle attività umane e animali.
Il dover pagare, infine, anche le probabili sanzioni europee che verranno accollate alla Calabria, quindi ai calabresi tutti, dà il senso della beffa che si aggiunge al danno. Tutto ciò dà anche il senso di una situazione alla quale non si vogliono trovare altre soluzioni che non siano l’apertura di nuove discariche e l’ampliamento di quelle esistenti.
L’imponente finanziamento di oltre 250 milioni di euro con cui imporre il finanziamento di discariche, impianti ed inceneritori, delinea bene il disegno politico messo in atto dalla “politica dei governanti calabresi”. Altri 90 milioni di euro, poi, si sono aggiunti per il trasferimento transfrontaliero dei rifiuti in eccedenza, rispetto alle capacità di trattamento degli impianti calabresi. La decisione di far emanare al Consiglio Regionale la legge n.6/2014 che rende possibile il ricorso ad impianti privati, giusto per provare a mettere una pezza all’emergenza rifiuti, evidenzia ancora una volta la mancanza di volontà della “politica dei governanti” di mettere fine ad una perenne gestione emergenziale. Nella smania di scavare buche per nascondere rifiuti si promuovono progetti per “nuove discariche” che lasciano esterrefatti gli ultimi pochi scettici, dal momento che non tengono minimamente in considerazione – come molti Comitati Territoriali documentano ampiamente – i rischi idro-geologici e i vincoli naturalistici e paesaggistici esistenti. Le nuove discariche depauperano aree importanti da salvaguardare (parchi nazionali, produzioni Dop, Doc e colture d’eccellenza). Come sempre, in questo imponente esborso di risorse pubbliche, di cui ne fa le spese la popolazione calabrese, non si intravvede l’ombra di un centesimo per un reale ed efficace percorso di raccolta differenziata e per progetti di riduzione, riciclo e riuso dei rifiuti.
Questi soldi finiranno, ancora una volta, a rimpinguare le tasche di quelle poche losche figure dell’imprenditoria locale e non, clientele importanti per i politici che governano.
Da sole queste cifre basterebbero ad avviare un programma di raccolta differenziata regionale e, quindi, uscire definitivamente dalle situazioni emergenziali. Resta comunque chiaro che oltre 30 anni di privatizzazione hanno portato non soltanto un assalto ai “beni comuni”, con ricadute negative sulla salute e sulla qualità dei servizi pubblici, ma anche un cambio di lessico da parte del mercato: oggi le imprese della green economy parlano di energia da fonti rinnovabili e di isole ecologiche, propinandoci mega parchi eolici e fotovoltaici o discariche che di verde ed ecologico hanno ben poco. Dietro tutto ciò resta chiaro ed incontrovertibile l’obiettivo principale: il massimo profitto col minimo sforzo.
Oggi battersi contro discariche e mega impianti vuol dire anche provare a cambiare paradigma produttivo, mettendo al centro non il profitto di pochi ma la vita e gli interessi delle popolazioni che da anni si battono per riappropriarsi dei “beni comuni”, che non devono essere fonte di guadagno per pochi ma ricchezza di tutti. Ad un netto NO contro queste megaopere inutili va affiancato un percorso partecipativo e di lotta che dal basso riporti le popolazioni, le comunità, i tanti Comitati in mobilitazione ad essere soggetti centrali e fondamentali dei processi decisionali, politici ed economici. Non più solo “soggetti consultivi” senza nessun peso decisionale, dunque, ma “soggetti attivi che decidono” il futuro della propria vita. Niente deleghe in bianco quindi, ma promozione di forme di autogoverno e di autogestione a partire da progetti concreti sulla raccolta differenziata e la tutela del territorio e della vita. Tali progetti si basano su alcuni punti fondamentali:
⁃                zero discariche, zero inceneritori;
⁃                la raccolta differenziata spinta porta a porta;
⁃                la promozione della strategia “rifiuti zero”;
⁃                la programmazione industriale su scala locale per il recupero, il riciclo e il riuso dei rifiuti;
⁃                la gestione comune e partecipata delle popolazioni;
⁃                l’estensione e l’approfondimento del discorso sui “commons” come fattori comuni della popolazione, quindi inespropriabili a fini di lucro e privati. I “commons”, dunque, non solo come oggetti sotto attacco, da tutelare, ma anche come possibili elementi per la lotta anticapitalista.
Vediamo necessario rilanciare un “discorso sui commons” che li veda quali base per la resistenza e la trasformazione del presente. La crisi attuale sta mostrando come dal punto di vista dello Stato e del Mercato ci sia la crescente determinazione a privatizzare le conquiste del welfare, come è manifesto nei continui tagli all’educazione, alla salute, eccetera, eccetera.
Ciò conduce alla necessità di ricostruire forme di solidarietà, un tessuto sociale, un “potere di base”, che possa effettivamente funzionare come “contropotere” rispetto a questo violentissimo attacco alle condizioni di vita. Ci si riferisce a forme di organizzazione sociale, di “solidarietà diffuse”, che nei nostri territori sono state quasi distrutte.
Il riferimento è a quelle “forme comunitarie” di sostegno reciproco, una precondizione necessaria e da ripensare oggi. In quest’ottica il tema dei commons deve essere visto come una “forma di ricollettivizzazione” contro “l’individualizzazione radicale” della produzione.
Dentro la crisi completa dei servizi sociali si aprono spazi di possibilità di “pensare i commons” come “potere trasformativo”, come “forma di connessione sociale” e creazione di “nuove modalità di produzione e riproduzione”. Le teorie dei commons li definiscono come “molteplicità”, ossia inducono a pensare insieme la necessità di risorse, le pratiche di resistenza e la sperimentazione e prefigurazione di nuove forme sociali. I commons devono essere necessariamente una base per la “rivendicazione di risorse”. I “commons” sono “una trama di relazioni”, delle “forme di intercomunicazione”, delle “regole di gestione”. I commons non sono “oggetti” di cui appropriarsi.
Concludiamo questi brevi cenni con una riflessione sullo “spazio pubblico”. La sua costante e progressiva sottrazione/erosione è evidente, bisogna però fare attenzione a non sovrapporre il tema dello spazio pubblico con quello del “pubblico” e più in generale con quello dei “commons”. Questi ultimi, in quanto multidimensionali, comprendono anche lo “spazio”, ma in modo inestricabile rispetto alle “relazioni sociali” che su di esso si sviluppano, che sono più importanti.
Ci sono oggi segnali dalle lotte sul ciclo dei rifiuti che lasciano intravvedere una possibile “politica dei governati”, fondata sulla riappropriazione dei territori entro i quali è possibile  “reinventare” un “welfare dal basso” che fa leva sull’autorganizzazione, sulle esperienze mutualistiche e sulla capacità di autogestione.
Dalle lotte territoriali emergono dunque effettive possibilità di “costruzione del comune” e per questo vogliamo rilanciare, tra i tanti punti importanti che queste lotte indicano, un “discorso sui commons”!